Sosia

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La sera era calata con logorante lentezza. Il sole si era arreso al sonno, scomparendo lentamente dietro gli alti palazzi della città e lasciando il posto alla candida luna, che sorgeva timidamente nel cielo del crepuscolo.

L'orologio ticchettava arrogante, scandendo il tempo con snervante precisione, mentre il silenzio avvolgeva il resto, lasciandomi immersa nell'immensità dei miei pensieri.

Non mi ero mossa di un millimetro da quando Henry si era recato al lavoro, e la flemmatica giornata era finalmente giunta a termine, ma ciò che mi torturava la mente non intendeva darmi pace.

Il soffitto del salotto aveva accolto i miei strazianti pensieri, ormai stremato e nauseato da essi.

L'aria era pesante e viziata.

Dopo interminabili ore spostai lo sguardo sulla porta blindata; avevo perso il senso del tempo trovandomi smarrita nell'immensità di una dimensione alternativa.

Sbuffai osservando l'antipatico orologio posto sulla soglia.

Avevo gli occhi gonfi e pesanti, le lacrime asciutte sul viso tiravano la pelle, e il respiro flebile mi sfuggiva dalle labbra sotto forma di lievi sospiri.

In quell'arco di tempo passato in solitudine avevo avuto modo di riflettere riguardo molte cose, e una di quelle era il funerale. Scartare a priori un'opportunità così non era stato vantaggioso, potevo ottenere informazioni, vedere nuove persone e magari ricevere anche delle risposte. Credevo ancora che non fosse la cosa migliore cercare di capire cosa mi fosse successo, ma allo stesso tempo la curiosità e la rabbia mi spingevano a cercare delle spiegazioni.

Improvvisamente però un'idea mi balenò in testa come un fulmine: scattai immediatamente in piedi maledicendomi subito dopo per il dolore provocatomi alla gamba.

Cominciai a frugare ovunque: aprii cassetti, svuotai mensole, esaminai ogni singolo soprammobile, liberai armadi e credenze, senza però trovare alcunché di interessante.

In seguito, seduta sul pavimento, mi fermai un secondo a riflettere, pensando a dove potessi trovare qualcosa che mi illuminasse riguardo la mia vita passata, fino a quel momento una sola fotografia provava la mia esistenza, ma ci doveva essere qualcosa, non potevo aver vissuto in quella casa senza lasciare alcuna traccia.

Così, mettendomi nei panni di Henry, pensai a dove avrei potuto segregare un tale ricordo, immaginai il dolore del ragazzo nel vederlo continuamente e allo stesso tempo anche la sua incapacità di distruggerlo. Mi spostai nella sua stanza, osservando le pareti in legno, ero sicura ci fosse qualcosa che non vedevo tra le fessure di quelle assi, le sfiorai con il palmo della mano esaminandole accuratamente, ma senza trovare alcun ché.

Esausta mi lasciai cadere sul letto puntando lo sguardo sul soffitto.

Cosa mi sfuggiva? Cosa c'era che non riuscivo a vedere?

Mi risultava impossibile metabolizzare il fatto che tutto ciò che in passato era mio si fosse volatilizzato in quel modo, non poteva aver gettato ogni cosa, non mi sembrava il tipo da compiere un tale gesto disperato.

L'intonaco bianco mi dava la nausea, tutta quell'assenza di colore rendeva l'atmosfera vuota e insipida, ma proprio in quell'istante notai un bizzarro cambiamento di tono: si intravedeva un rettangolo lievemente più scuro, come se quella piccola zona fosse stata ridipinta di recente.

Mi alzai in piedi sul letto, affondando nel morbido piumone d'oca, protesi il braccio in direzione del soffitto, ma purtroppo la mia statura mi fu d'intralcio.

Scesi così dal materasso dirigendomi di fretta al balcone, non appena aprii la finestra un freddo siberiano si affrettò ad investirmi, tremante uscii afferrando una scala da muratore appoggiata alla parete.

Repulisti - La ragazza senza nomeWhere stories live. Discover now