La ricompensa dei ratti

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Quella notte uscii più tardi, verso le dieci e mezza, ed evitai accuratamente i bar. Tracce di polvere di stelle mi facevano camminare lungo un itinerario completamente nuovo. C'erano macchie di sangue rotonde, grandi come monete da cinque centesimi, e benzina sparsa, cassonetti rovesciati e un piccolo cane nero morto schiacciato da un macchina nel mezzo della carreggiata. Mi tolsi le scarpe e le nascosi dietro un angolo, spingendoci poi contro un bidone nero. Non avevo le calze, dovevo sentire l'asfalto ruvido sotto la pianta dei piedi.

Mi accorsi che la città respirava, che lo facevano i muschi che incrostavano i mattoni, i licheni e le mosche moribonde, le persone e il cielo e la terra. Ogni cosa respirava di notte, in quelle strade semideserte di periferia dove nessuno faceva caso al fatto che portavi o meno le scarpe. Passai tra i vetri rotti senza ferirmi e in lontananza vidi qualcuno fermo sull'uscio di una casa, che mi guardava. Mi fermai e lo riguardai. Era una donna castana, con una gonna rossa a decori floreali. Non aveva paura di me, ma da quella distanza non riuscivo a capire se mi stesse guardando con la compassione, con lo scherno con cui tutte le donne mi guardavano. Io la guardavo e lei mi guardava, semplicemente, e mi parve tutto così perfetto: solo due viventi che stabiliscono un contatto, che si dicono "esisto". Che poi la mia specie per natura desse la caccia alla sua non importava, siamo vivi, dannazione.

«Ha bisogno di qualcosa?» Mi chiese la donna, alzando la voce e abbracciandosi da sola come se avesse freddo.

Mi aveva rivolto la parola, una cosa che non mi sarei mai aspettata. Avevo bisogno di qualcosa? Che cosa stavo cercando? Amore? Sarebbe stato osceno dirlo, considerato anche che la maggior parte delle persone, di notte e con il cappuccio della felpa, pensava che io fossi un grosso uomo. Un contatto, era questo che cercavo, ma sembrava altrettanto osceno. Mangiarla, mangiarla viva poteva essere un'idea, ma dopo avrei dovuto buttare giù la porta che si era chiusa alle spalle e il rumore avrebbe svegliato i suoi vicini e avrebbero chiamato la polizia e sarebbe successo un altro massacro.

«Vorrei delle indicazioni» Dissi alla fine, avvicinandomi lentamente «Gentilmente, può indicarmi...»

«Si?»

«La strada per Piazza Garibaldi».

Alla luce giallastra del lampione, vidi l'espressione della donna contorcersi in qualcosa che somigliava ad un "ce l'abbiamo una Piazza Garibaldi da queste parti?".

«Mi scusi» Dissi allora e indietreggiai. Volevo correre via. E fu quello che feci, ma non perché seguii quell'istinto quanto invece perché avevo visto di nuovo un uomo vestito in modo elegante che camminava a circa una sessantina di metri da me e che stava scomparendo dietro un palazzo. Che diavolo faceva quel tipo, vestito in quel modo, in giro a quest'ora?

«Ehi!» Esclamai, quando quasi lo raggiunsi, sperando che si voltasse. E invece lui prese a correre, le falde della giacca svolazzanti dietro di lui. Con un ringhio, più soddisfatto che di rabbia, presi a corrergli dietro.

Sinceramente mi sembrava di inseguire un coniglio in mezzo alla foresta e non un uomo in doppiopetto: girava con una frequenza impressionante, faceva lo slalom intorno agli arredi urbani e si infilava in ogni via laterale che incontrava. Se non fossi stata concentrata, sono sicura, sarei andata a sbattere contro qualche albero o palo della luce. Alla fine mi arresi: a quel gioco era più bravo lui. Dovevo allenarmi di più a correre, se un umano poteva seminarmi. Posso comunque assicurarvi che avevo corso davvero veloce, anche se evidentemente non abbastanza, e non mi sono mai convinta che fosse soltanto una questione di velocità.

Quella fu l'ultima volta che vidi anche lui e mi convinsi anche che non fosse una persona normale. Come minimo era un predatore che mangiava le altre persone.

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