Santo Stefano di Camastra

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Il viaggio proseguì, fra lunghi periodi di silenzi e le storie concitate di September, così vere da farti dimenticare la realtà.

Fu nelle sue parole che conobbi l'Inghilterra lontana, i castelli del medioevo, la guerra dei paesi del sud del mondo, ma soprattutto conobbi Sparta. Ero avida di storie su Sparta, sui suoi guerrieri in rosso che credevano nella forza e nella guerra. Sharazad non capì mai questa mia passione: lei, come September aveva già supposto, non era altro che una principessina indiana, imbottita di storie da mille ed una notte, che era stata estrapolata dal suo contesto naturale per essere gettata nel duro mondo militare.

Però non osò più parlarmi, dopo la prima volta. Forse stava facendo la cosa giusta.

Quel giorno passò in fretta, e ne vennero molti altri, uno dietro l'altro. Arrivammo perfino dentro un paese, ma fu una visita breve, e per nulla interessante. C'era tanta gente normale, come l'avrebbe definita una persona normale, e non ebbi il tempo di apprezzare le bellezze del luogo visto che ci rimanemmo pochissimo tempo dentro il centro abitato.

Anche Sharazad vestiva di nuovi abiti, ma in maniera molto più ricca di me, con la sua maglia arancione, decorata a colori caldi, e i pantaloni color kaki con tasche ampie, che pure aderivano alle sue lunghe gambe perfette. Mi chiesi come il suo corpo potesse essere così glabro: sopra la pelle scura i peli erano pochissimi, appena qualcuno, molto corto, e biondo. Al confronto sembravo un orso che aveva fatto da poco la ceretta.

Anche September aveva pochissimi peli, per essere un maschio, e me ne accorgevo davvero solo ora che si era messo le maniche corte. Le sue braccia cicciottelle e all'apparenza tozze erano quasi bianche, come carta con un sottilissimo strato di cipria rosata, e senza peli sugli avambracci. In compenso gli stava crescendo la barba, ed era una barba sottile e ancora morbida, di un tenue rosso come le foglie che d'autunno ricoprono il sottobosco, da accarezzare. Non fui molto felice quando se la rase, rimasi a guardarlo tutto il tempo.

In realtà non fu lui a radersi da solo, ma entrò in un curioso localino che riportava la scritta "barbiere" al posto dell'insegna e che di lato alle lettere rosse che lo caratterizzavano aveva una specie di cilindro con una spirale bianca e rossa che non avevo mai visto. Una sola, ampia, vetrina forniva luce a tutto il negozietto, luce che veniva riflessa da una decina di specchi.

L'uomo che ci accolse doveva avere sui sessantadue-sessantacinque anni, aveva la testa completamente calva e lucida, un volto magro, affilato, con un naso alquanto prominente. Nonostante i lineamenti così rapaci, protesi, aggressivi, la sua espressione era continuamente gioviale, la sua bocca, dalle labbra sottili e leggermente avvizzite, aveva gli angoli costantemente rivolti verso l'alto.

Quando ci vide entrare tutti e quattro, lupo compreso, ci guardò come se ne fosse estremamente felice e poggiò le mani sul grembiule bianco, da macellaio, che portava.

Ancora non sapevo cosa eravamo venuti a fare lì dentro, perciò mi preoccupai un po' quando vidi September sedersi sulla poltroncina di pelle nera davanti allo specchio e l'uomo dal camice da macellaio che gli si avvicinava e gli metteva le mani addosso, con quelle sue lunghe dita dalle nocche spesse.

Mi sedetti in silenzio accanto a loro, assistendo ad uno scambio di battute che, francamente, trovai banale.

Parlarono di cose che non capivo e che non mi interessava capire, di leggi numerate, di salari, di pensioni e di età di pensionamento, insomma, di tutto fuorché di ciò che stavano facendo.

Il barbiere era estremamente disinvolto mentre spennellava di bianco la faccia di September e contemporaneamente parlava di "destra" e di "sinistra", poi lo vidi prendere un oggetto affilato e che mi parve perfino pericoloso.

September mi lanciò un'occhiata omicida

«Non fare niente di stupido» sussurrò, e con quella faccia imbiancata che si ritrovava mi fece venire da ridere.

Rimasi tesa per tutto il tempo mentre l'uomo magro passava quella lametta sulla faccia di September, guardai con rimpianto i corti peli rossi che cadevano, avvolti nella loro schiuma cremosa. Avrei dovuto impedirgli di sprecare tanta bellezza, ma non lo feci per via del patto che io devo fare tutto ciò che lui vuole, ecc... ecc... e giustappunto, prima di entrare in quel posto strano, September mi aveva chiesto di non oppormi a qualunque cosa gli avrebbe fatto il signore con il grembiule bianco.

Anche Sharazad guardava September, ma in una maniera che mi irritò, come se volesse divorarlo. Immaginai che se avesse avuto la coda la avrebbe fatta ondeggiare lentamente e sbattere sui fianchi. Immaginavo le sue zanne pallide, scoperte, e la lingua scarlatta umida di saliva. Resistetti all'impulso di afferrare uno dei rasoi del barbiere e staccare la giugulare della tigre mannara con un colpo solo, abile, veloce, preciso, laddove la vena pulsava chiaramente a fior di pelle.

Quando uscimmo da dentro il localino, tirai un sospiro di sollievo, e September mi diede una pacca su una spalla, guardandomi poi con espressione tipo "non prendertela per così poco!".

C'erano un mucchio di bambini, su un marciapiede, e stavano giocando con delle figurine, o delle card, o delle card-figurine, insomma, quelle che si collezionano. Ebbi l'impulso improvviso di unirmi a loro, poi uno dei più piccoli iniziò a canticchiare piano una canzoncina irritante e lo lasciai perdere. Non mi sarei avvicinato a qualcuno che, tutto felice, cantava "Dracula, Dracula, vampiro dal nero mantello".

Due giorni dopo arrivammo in un altro paese. Era un paese particolare, molto pittoresco, diverso da tutti gli altri che fino ad ora avevo visitato. Era senz'altro bellissimo, tutto Sole e case, le montagne sullo sfondo, con gente che sorrideva, e i muri rivestiti di ceramica e dipinti a colori vivaci. Ricordo che avesse un nome tipo "Santo Stefano" più qualcos'altro che la mia memoria, evidentemente, non trovò necessario ricordare.

September si fermò all'entrata a gambe larghe, invitandomi con lo sguardo a godermi ciò che stavo già assaporando da tempo

«Vi piace?» domandò, con una curiosa inflessione euforica

«Splendido» commentai

«Meraviglioso» aggiunse Sharazad, superandomi di un passo «Tutto questo colore...»

«Ci fermeremo qui per un po' di tempo. Ho un amico, sapete, che vive e qui, e probabilmente ci ospiterà»

«Un mago?» lo interruppi

«No, non è un mago» mi diede uno sguardo da sopra la spalla, ammiccando vivace «E ti piacerà, vedrai».

Ci condusse fino ad uno spiazzo decorato, talmente colorato che mi girava la testa a guardarlo tutto. C'erano decine di negozi in circolo, ed ogni negozio esponeva merci altrettanto vistose. C'erano dei grandi soli di ceramica, dipinti a tinte forti, oppure vasi di terracotta, grandi quadri, piastrelle, mattonelle, e tigri, cani, animali di ogni genere decorati da ampie pennellate di colori tenui.

Vidi perfino un grosso elefante di coccio, altro sul metro e venti, con lunghe zanne bianche, il dorso grigio chiaro tutto decorato da spirali di un rosa antico che si scomponevano in spine sottili e in foglie rotondeggianti, poi si aprivano in grandi boccioli delicati. Sul dorso dell'elefante c'era un piccolo baldacchino tutto decorato con ricami elaborati in oro, le colonnine nere, e la fascia intorno alla pancia dell'elefante azzurra. Non osai immaginare il prezzo di quell'articolo: era meraviglioso.
A me non erano mai piaciuti gli elefanti, ma quella era arte vera.

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