Vampiri con le mitragliatrici

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Non potevo certo aspettarmi di trovare una cosa del genere in mezzo al nulla, ma in fondo ero grata al destino del fatto che un vero palazzo sorgesse fra le dune e le erbacce. Avevo sete, e sarebbe stato facile trovare dell'acqua in quell'enorme, mostruoso, palazzo. Almeno speravo, perché se non avevano dei servi umani era difficile che servisse loro dell'acqua da bere. Poi mi ricordai di quel traditore di Blacky. Lui beveva, quindi c'era dell'acqua per forza, da qualche parte.

Ma mentre aprivo la porta e scendevo dal camioncino, dubitavo grandemente che la cosa che mi ardeva la gola fosse sete. Era un desiderio che bruciava la carne, era la vendetta. Non volevo fare si che la vendetta, come nel famoso detto, fosse servita fredda. Io la volevo adesso, calda, e poi raffreddarla bevendoci sopra sangue a fiumi.

Il castello, si notava anche da grandi distanze, era sfarzoso e puzzava di vampiro. Che dire, un'accoppiata armoniosa, ma disgustosa. Era come se su tutte le pareti ci fosse scritto a lettere giganti "Lilith, Lilith, Lilith...".

I mattoni, perfettamente lisci, sembravano appena usciti dalla fabbrica, e in cima alle torri che svettavano ai lato dell'edificio, gigantesco e imponente come un dinosauro in mezzo alle dune, vi erano curiose cupole che mi ricordavano la forma delle castagne, con una piccola punta alla fine. Poi mi saltò alla mente l'illustrazione di uno dei libri di September, qualcosa del tipo "Mille e una Notte". Molto orientale, molto fiabesco, d'accordo, poteva anche essere, ma l'odore dei vampiri mi manda sempre abbastanza in bestia da non farmi apprezzare la bellezza di certi luoghi. E poi ero terribilmente arrabbiata con Lilith e vedere la sua casa mi faceva venire voglia di essere la proprietaria di un'agenzia di demolizioni.

«Ah, ok, vediamo di fare quello che dobbiamo» Ringhiai, avanzando verso la porta a passo spedito.

Angela mi corse dietro e mi fermò, mettendomi una mano sulla spalla

«Non è il caso di essere precipitosi...» disse, con una certa sollecitudine «Dovremmo prima annunciarci, potremmo non essere graditi, in questo momento...»

«No, devo andare».

Però, davanti alla porta, mi fermai. Non era il genere di uscio che si metteva su un palazzo orientale.

Sbagliato, sbagliato, sbagliato... era nero come il catrame, ma opaco, e dai due pannelli sembravano uscire due grosse teste di bestie che non riuscivo a riconoscere. Erano due volti felini e allungati, credo, ma con musi vagamente umani, meno gonfi, e dalle labbra sottili e arricciate a mostrare zanne di ebano lunghe come un indice, con le punte più smussate rispetto ai canini dei lupi, ma un peso e una forma che, credo, sarebbero potuti essere letali se solo fossero esistiti nella realtà. Gli occhi e la bocca erano scavati profondamente nel legno, praticamente dei buchi, e credo persino che attraversassero da una parte all'altra la porta. Appoggiai una mano sul legno, attratta, ma ciò che sentii era disgustoso: era freddo, anche umido, nonostante il caldo che c'era stato per tutta la giornata. E le mie dita erano come appiccicate e brucianti, quasi delle schegge si fossero conficcate nei polpastrelli.

E poi, all'improvviso, dagli occhi e dalle bocche dei due musi animali, iniziò a colare un liquido rosso. Non diedi per scontato che fosse sangue finché non ne percepii l'odore, terribilmente, genuinamente ferroso.

Angela spalancò gli occhi, poi si allontanò di corsa da me. Urlò cose che non capii, poi mi indicò, terrorizzata. Strinsi i denti

«Che succede?!» urlai, sempre più irrequieta

«Solo se un impostore tocca la porta, le chimere sanguinano!» gridò Angela, arrabbiata e spaventata insieme, poi fece come per estrarre un'arma dalla tasca.

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