Capitolo 56

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Non sono molti i ricordi che mi restano di quella dannata notte in cui vidi tutta la mia vita andare in frantumi esattamente davanti ai miei occhi, crollare come un aereo in picchiata, schiantarsi come il Titanic contro il grandr iceberg che gli sbarró la strada facendogli da ostacolo, un ostacolo che esso non seppe superare.
Dicono che l'amore, quello vero, dev'essere travagliato per essere tale; dicono anche che una storia troppo perfetta, poi ti annoia; e che gli ostacoli esistono per ricordarsi quanto ci si ama, per unirsi e legarsi maggiormente uno all'altra; poi, dicono che se due persone sono fatte per stare insieme, poi si ritroveranno sempre, anche quando smetteranno di cercarsi, anche quando loro stessi non vorranno più trovarsi. C'è inoltre chi pensa che, se questo amore è reale, non finirà mai e che, invece, se finisce, reale non lo è mai stato. Assurdo, no? Divertente, anche. Quasi ridicolo da affermare.
Scossi la testa strattonandomi i capelli sciolti con due mani aggrovigliate alla cute; lacrime amare di pura delusione sfregiavano il mio viso, stanco e afflitto, tagliandolo come scaglie di vetro appuntito spezzato da un tonfo troppo forte per lui. In quel momento acquisii la consapevolezza che, per quanto potessi mostrarmi forte e salda come una roccia, la mia anima era interamente composta di carta velina che avrebbe potuto essere spazzata via, e in seguito distrutta, anche da una flebile folata di vento inaspettata.
Nonostante non avessi mai particolarmente amato l'alcol, in quel momento sentii un forte bisogno di distruggere temporaneamente la mia psiche, tanto da imporle il collasso insieme a quell'orrenda immagine che non faceva altro che logorare ogni piccola parte del mio corpo, fino a ridurmi a un mozzicone di sigaretta schiacciato aggressivamente tra un freddo e ruvido asfalto di sconfitta e la pesante suola di uno scarpone di delusioni.
Era quella l'unica scena che la mia mente aveva perfettamente registrato, marchiata di un inchiostro scuro e indelebile; la stessa che sarebbe stato meglio non vedere mai.
Più opponevo resistenza contro il mio subconscio che non accennava, nemmeno per un istante, a cessarne la riproduzione in loop, più esso si accaniva contro di me devastando, passo dopo passo, ogni flebile fibra del mio animo che pareva ancora in vita, uccidendola definitivamente fino a ridurmi un sacco dell'immondizia abbandonato sul ciglio della strada.
Mi trovavo, stupidamente sola e incredibilmente menefreghista del pericolo, alla stazione dei treni di Milano senza alcun titolo di viaggio, con il cuore ancora incastrato nella speranza che non fosse altro che un brutto incubo che, a breve, sarebbe stato bruscamente interrotto dal suono della sveglia, quel trillo così fastidioso che non avevo mai pregato tanto di udire come in quel momento.
Ahimè, nessuna sveglia suonó quella notte a condurmi fuori da quel brutto sogno: era la realtà e l'unica cosa che mi restava da fare era accettarla per quanto dolorosa potesse essere.
Le sue parole mi rimbombavano nella testa come l'eco di un urlo scagliato dalla cima di una montagna; sei mia, ti amo, voglio solo te, non ti lascerò mai.
Sorrisi. Era un sorriso colmo di amarezza, uno di quelli la cui tristezza si nota lontano un miglio, uno di quelli che parlano di profonda ferita. Scossi la testa nuovamente, ancora e ancora: nulla servì a liberare la mia mente ormai succube di quella scena.

"Finalmente ti ho trovata, Sofia, cazzo! Ti ho cercata per tutta Milano! Cosa cazzo ti salta in mente?!" Gridó Lele, portandosi una mano sul petto e piegandosi sulle ginocchia nel tentativo di recuperare il fiato perso nella corsa sfrenata alla mia ricerca. Dovetti scrutare la zona più volte per mettere a fuoco la presenza di un'altra persona al suo fianco. Saettai lo sguardo tra lui e Cecilia, senza neppure accennare a dire una parola: la voce pareva essersi incastrata tra le mie corde vocali, provocando un dolore lancinante ad ogni tentativo di emettere qualsiasi tipo di suono. Deglutii una piccola quantità di saliva, con gli occhi ancora gonfi e annebbiati da un pianto che non aveva mai cessato di proseguire.

"Lele, calmati." Lo riprese dolcemente Cecilia, posandogli una mano sulla spalla per poi superarlo e inginocchiarsi davanti a me.
"Quello che voleva dire è che era tanto preoccupato per te. Temeva potesse succederti qualcosa." Rigiró le parole del mio amico in una frase ch'era certamente più consona dato il mio pessimo stato psicologico. Tirai le labbra tentando di abbozzare un sorriso di ringraziamento, ma tutto ciò che ne uscì fu un forte colpo di tosse seguito dalla temporanea assenza di saliva all'interno della mia bocca.
Era davvero possibile sentirsi così male?
"Dài, alzati." Mi invitó lei tendendomi la mano, "Andiamo via da qui.".
Scossi la testa in risposta negativa: lo volevo, volevo davvero andare via da lì, ma non semplicemente dalla stazione, non in qualche posto calmo e sperduto della bella Milano. Ciò di cui avevo bisogno era lasciare la città, tornare a Roma dove mamma mi attendeva con ansia, e con la sua stupida paura che potesse accadermi qualcosa in qualsiasi momento. Non aveva poi tutti i torti, in fondo, mamma.
"Devo andarmene." Riuscii, non seppi neppure io in quale modo, a sussurrare, con voce troppo bassa e flebile, ma abbastanza da farsi comunque sentire.
"Si, Sofia. Coraggio, andiamo." Mi intimó nuovamente Cecilia.
"Non hai capito. Voglio tornare a Roma.".
"Cosa cazzo stai dicendo?! Tu non te ne vai!" Gridó Lele.
Non avevo ben chiara la situazione, i miei occhi ancora non mi permettevano di distinguere e delineare perfettamente le figure nonostante le lacrime da versare fossero ormai terminate, ma potei giurare di aver colto un ulteriore lampo di pioggia salata anche nello sguardo del mio amico in seguito alla mia affermazione. Certo, non escludo che le mie parole potessero essere portate dall'amaro e fresco episodio a cui avevo assistito; poteva risultare una scelta affrettata, scaturita dall'esasperazione di un'ulteriore delusione causata da quello stupidissimo ragazzo, dagli occhi sfumati in verde, di cui mi ero follemente e perdutamente innamorata, ma n'ero pienamente sicura: non sentivo il bisogno di vederlo, anzi! Ció che stavo sperando con tutto il cuore era solo sentire il fischio del treno diretto a Roma, vederlo rallentare in prossimità della sporca e scura stazione in cui giacevo, disperata, in quel momento, corrergli incontro e gettarmi sul primo sedile libero finchè non si sarebbero chiuse le porte e riattivato il motore, portandomi lontano insieme ai miei milioni di demoni che si sbracciavano per salire in superficie. Lontano da Milano, da Tancredi e da tutto ciò che, ormai, non andava più. Lontano, dov'era giusto che io stessi.

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Buonasera fanciulli, come state?
In molti mi avete chiesto se ho una fanpage: no, non ce l'ho. Peró, se volete, potrei lasciarvi il nickname del mio account instagram privato. Insomma, non che dobbiate essere per forza interessati a chi io sia, ma è l'unico profilo che ho!🤪
Spero stia continuando a piacervi la storia, e perdonatemi se li ho fatti litigare ancora ma, come ha detto che Sofia, un'amore perfetto poi ti annoia!
Un bacione stelline😘

TI GUARDO FISSO E TREMO - Tancredi GalliWhere stories live. Discover now