In cerca di indizi

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Il fatto di rientrare a casa subito dopo la scuola da quel momento in poi sarebbe diventata un'abitudine visto che non c'era più un posto dove andare e la persona con cui condividere il resto della mia giornata.

Arrivata a casa, ovviamente, non trovai nessuno.
I miei avevano lasciato vari messaggi in segreteria telefonica. Li ascoltai tutti assorta nei pensieri:

«Ciao tesoro. Siamo ancora in ospedale. Stiamo sbrigando le pratiche burocratiche per...insomma non preoccuparti». Questo era della nonna.
Quello della mamma, invece, mi annientò definitivamente: «Sarah...» singhiozzi, pianto, poi: «Sarah, sono la mamma...Tarderemo un po' perché non ci lasciano ancora vedere il corpo...» ancora singhiozzi poi, «Domenico, dille tu qualcosa!» Pausa, poi: «Sarah, sono papà...Biip. Spazio messaggio insufficiente.»

La voce meccanica mi riportò alla realtà. «Maledizione!!» urlai prendendomela con la segreteria telefonica. Una nuova crisi mi stava assalendo. Le lacrime oramai uscivano da sole, era bastata la parola corpo per farle straripare, ancora. L'immagine di zia distesa su un lettino d'obitorio, al freddo, coperta solo da un lenzuolo in attesa dell'autopsia, mi faceva impazzire.

Che cosa le hanno fatto per ridurla in fin di vita e condurla alla morte? Pensavo.

Daniel, che nel frattempo era andato a perlustrare la mia stanza alla ricerca di una coperta per scaldarmi, mi rispose col pensiero mentre scendeva per le scale.

Preferirei non dirtelo. Te lo spiegheranno i tuoi genitori appena torneranno.

Non dissi nulla, tanto sapevo che era inutile insistere per sapere qualcosa.
Mi avvicinai alla finestra della sala e rimasi lì, immobile, a contemplare il lago.
Le nuvole plumbee avevano invaso il cielo, la pioggerella sottile di quando eravamo rincasati, stava lentamente lasciando il posto a una più fitta e battente.
Il vento si era alzato inesorabile e la pineta iniziava a ondeggiare sotto le sue sferzate.
Rabbrividii nuovamente.
Daniel si avvicinò e mi poggiò sulle spalle la mia coperta di pile rosso.
«Grazie» dissi senza voltarmi.
Lui non rispose, ma rimase dietro di me, senza muoversi. Sentivo che non voleva invadere il mio spazio con inutili parole di cordoglio.
Sapeva bene cosa stavo provando in quel momento perché lo sentiva anche lui.
Soffriva con me e per me.

Lentamente il cielo si scurì per il calar della sera.
Mi distesi sul divano nel falso tentativo di riposare. Così, eclissata completamente dietro al mio dolore, crollai addormentata. Non sognai nulla o almeno così mi parve.
Verso le ventuno i miei genitori, finalmente, rincasarono.
Mi svegliai appena udii il cancello automatico scorrere lento sul suo binario. 
Fuori era buio pesto e il temporale si era placato.
Quando i fari della BMW di mio padre rischiararono per un attimo la stanza buia, mentre scendeva in garage, mi accorsi che Daniel era accoccolato sulla poltrona di fronte a me e mi guardava immobile con espressione indescrivibile: sul suo bellissimo volto c'erano due rivoli di lacrime brillanti, cristalline.
Stava piangendo in silenzio.
Mi misi a sedere. Ero profondamente colpita dalla sua reazione.
Appena Daniel si accorse di me, si ridestò e si asciugò la faccia con la manica della felpa.
Aprii le labbra per dirgli qualcosa, ma in quel momento i miei entrarono dalla porta d'ingresso e mio padre inaspettatamente accese la luce. I miei occhi a quel punto rimasero letteralmente abbagliati, come un vampiro alla luce del sole....

«Oh, scusa cucciola, non pensavo fossi qui!» disse stupito nell'avermi trovata là in salotto.

«Non fa niente, papà...Ma dimmi invece, la mamma? Dov'è? Come sta?» domandai ancora un po' stordita perché non riuscivo a tenere gli occhi ben aperti.
Appena mi riadattai, notai che Daniel era sparito, forse non voleva farsi vedere così vulnerabile da mio padre.

GUARDIANA DEL DESTINO - La pergamena del destinoWhere stories live. Discover now