𝟐𝟑. 𝐂𝐔𝐎𝐑𝐄 𝐄 𝐏𝐑𝐎𝐈𝐄𝐓𝐓𝐈𝐋𝐈

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Amber tornò in aula molto prima dello scadere dei minuti che le erano stati concessi. Non che lo sapesse; non aveva nulla con sé per scandire quel fluire ineluttabile dei secondi, che le sembrarono passare fin troppo rapidamente.
Da un po', infatti, il tempo per lei aveva iniziato a scorrere in maniera diversa. Una corsa scandita dal ritmo galoppante del suo muscolo cardiaco e che si era arrestata di colpo, nel preciso istante in cui l'aveva visto. Lui. Dick.

Aveva così tanti pensieri per la testa e scene totalmente diverse che le passavano davanti agli occhi, che guardare quello che aveva davanti era quasi impossibile.
Di una cosa era certa però, di quel passo, anche il più sano dei cuori non avrebbe retto a lungo.

Mentre avanzava all'interno di quelle pareti opprimenti e dall'aria sempre più pesante, volse il viso verso i suoi genitori. Ebbe l'istinto di sorridergli, più che altro per assicurargli che fosse tutto ok, anche se poi, effettivamente, di ok non c'era nulla. E che sarebbe andato tutto bene, ma le sue labbra non si mossero, e rimasero ferme in una linea dritta e tesa. Avrebbe voluto raggiungerli, abbracciarli più forte che poteva e invece no, perché il suo volere era in balia di quello di un pazzo psicopatico.

Aron batté le mani per attirare la sua attenzione. «Allora, mia cara, il messaggio è stato ricevuto?» chiese, inarcando entrambe le sopracciglia e sfregando i palmi tra di loro. Prese ad avanzare verso di lei in attesa che gli rispondesse.

Amber sapeva esattamente cosa dirgli, ma non riuscì a farlo. Non voleva farlo.

Robin, o meglio Dick, - faceva ancora fatica a pensare che fosse lui -, aveva avuto giusto il tempo per spiegarle a grandi linee il suo piano. Un pessimo piano secondo Amber, che non approvava affatto e che non aveva avuto modo di contestare, se non con un sussurrato ma deciso "no". In ogni caso, dubitava che lui le avrebbe dato ascolto, anche se avesse passato ore a elencargli i motivi per il quale quel piano fosse da suicidio. E come se non bastasse, in quel piano era da solo, perché come lui stesso gli aveva detto, quando Amber curiosa glielo aveva chiesto, Batman non c'era. Non aveva aggiunto altro.

Tuttavia, decise di fidarsi, e finalmente sapeva che poteva farlo. Fidarsi e basta, senza dubbi che le aggrovigliassero le meningi.
«Sì. Hanno lasciato l'edificio» gli rispose dopo svariati secondi, continuando a fissare dritto davanti a sé.

Amber lo sentiva avvicinarsi sempre di più, fin quando percepì il suo fiato scontrarsi contro un lato del suo viso. Rabbrividì. Non aveva bisogno di guardarlo in volto per sapere che l'ottimismo su di esso fosse appena stato rimpiazzato da qualcos'altro che non aveva intenzione di scoprire.

«E dimmi un po'» le sibilò Aron, girandole intorno come un predatore, e Amber dovette fronteggiare l'istinto di chinare il viso. «Ti aspetti che io ci creda? Vuoi farmi credere che se ne siano andati? Così, come se niente fosse» si fermò dietro di lei, «Neanche una piccola, piccola richiesta? Strano, molto strano, non trovi, mia cara?»

Amber rimase immobile.
Dick le aveva anticipato quella risposta, sapeva che lui non avrebbe abboccato, e senza una via di fuga, chiuso in quel posto e pensandoli pronti ad agire, sarebbe piombato in uno stato di agitazione senza eguali.
L'ansia e la paura erano i nemici numero uno di ogni situazione. E Aron, in quel momento, se pur celata, ne aveva eccome.

«Va a sederti lì.» Con un cenno del capo, Aron le indicò il muro opposto a quello del resto degli ostaggi. Una piccola precauzione nel caso avesse ricevuto istruzioni o informazioni da passare agli altri.

Come da piano, il commissario Gordon attuò l'ennesima chiamata, e Aron, che nel frattempo aveva installato sul dispositivo un programma per alterare la voce, rispose all'istante. «So che siete ancora qui, commissario» disse sprezzante.

𝐍𝐢𝐠𝐡𝐭𝐰𝐢𝐧𝐠Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora