𝟓𝟐. 𝐀𝐄𝐑𝐎𝐏𝐎𝐑𝐓𝐎

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La Guardia si trovava nel Queens, ed era uno dei maggiori aeroporti di New York, ma per quanto grande fosse a quell'ora non era tanto affollato. O almeno, lo era meno del solito, e Amber dubitava che la scelta dell'orario fosse casuale.

Se ne stava accanto a sua madre, abbandonata su una poltrona in pelle marrone della sala lounge del Delta Sky Club. Un braccio piegato che scorreva con estrema lentezza contro l'altro e lo sguardo perso nei contorni sfocati di quello che le stava davanti.

«Hai freddo?»

Amber girò il viso in direzione di sua madre e lo scosse leggermente. «No» rispose in un esile mormorio, poi si guardò intorno alla disperata ricerca di qualcosa che potesse distrarla.

Il Delta Sky Club era un lounge esclusivo. Si trovava al terminal C, ed era uno spazio immenso dotato di sedie, divani, postazioni di lavoro individuali e tavoli di co-working. Era tra i più belli, se non il più bello in cui fosse mai stata. Poteva dirlo nonostante non si fosse mossa da quella poltrona da quando ci si era seduta.

Prevalevano il bianco, l'avorio e varie sfumature di marrone. In alcune aree il pavimento era di moquette, calda e accogliente, in altre di marmo abbinato a pannelli e rifiniture in legno. I soffitti erano altissimi, con faretti di ultima generazione e luci dal design moderno a decorarlo. Dalle pareti a vetrate si vedevano le luci esterne delle piste di atterraggio: screzi di luce avvolti da una quasi totale oscurità.

Gordon, di fronte a lei, stava parlando con suo padre, ignorando gli sguardi curiosi di qualcuno che a quanto pareva l'aveva riconosciuto. I cinque agenti in borghese che si era portato dietro, invece, si erano sparsi per il lounge e per non destare sospetto e creare allarmismo fingevano di essere normalissimi passeggeri in attesa del proprio volo.

Qualcuno se ne stava al telefono. Qualcun altro con il giornale aperto sotto agli occhi, a simulare interesse verso il testo di qualche notizia proprio come avrebbe fatto un uomo d'affari.

In sintesi, nessuno avrebbe mai sospettato delle fondine nascoste sotto le loro giacche.

Tyler stava parlando con uno di essi, a un tavolino a qualche metro di distanza da dove era lei. Amber l'individuò subito, perché nel lounge, oltre loro, non c'erano più di una trentina di persone.

Si alzò, sotto lo sguardo dei suoi genitori e quello di Gordon, e prima ancora che gli arrivasse vicino i suoi occhi la raggiunsero.

Si sollevarono e presero a seguirla, mentre l'agente che gli stava di fronte, e con cui improvvisamente aveva smesso di parlare, si girò per vedere cosa avesse canalizzato la sua attenzione. E non appena la vide dovette intuire le sue intenzioni, perché quando gli fu vicino si alzò cedendole il posto prima ancora che parlasse.

«Prego» le disse facendole un piccolo cenno con la testa.

Amber ricambiò il gesto, mormorando un esile «Grazie» mentre si sedeva, poi riportò lo sguardo su Tyler e inspirò. «Penso che dovremmo salutarci.»

Lui si abbandonò contro lo schienale della sedia. «Non ancora» disse e lei si accigliò. «Vengo con voi a Portland» aggiunse, rispondendo al suo cipiglio confuso.

Portland? Quindi era lì che erano diretti?

Amber fece per replicare ma lui proseguì prima che potesse farlo.

«Abbiamo ancora qualche giorno prima di salutarci.»

Lei annuì. Portland. Non c'era mai stata. Come non aveva mai preso un aereo con un biglietto di sola andata... Non le dispiaceva quella destinazione, non era lontanissima, ma purtroppo non era quella definitiva e non aveva la minima idea di quale potesse essere.

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