Prologo

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Finalmente un momento di pace.
Sorrido tra me e me nell'istante in cui inserisco gli auricolari nell'Iphone, facendo partire uno tra i tanti brani del mio cantante preferito.

Appoggio la nuca al sedile, serrando gli occhi stanchi e arrossati.

Ormai Seoul è lontana, le voci, le luci, il caos, lo smog, le auto che ti sfrecciano accanto come missili e le manifestazioni per la strada non ci sono più.

Ciò che mi circonda è semplicemente... silenzio, tranquillità, la pace dei sensi.

Riporto lo sguardo fuori dal finestrino soltanto per bearmi delle distese d'erba verde e bagnaticcia, e gli alberi alti e scuri che creano un'aria piuttosto cupa ma estremamente rilassante.

Siamo soltanto nella lontana periferia della mia futura cittadina, situata ad una mezz'oretta dal posto che stiamo percorrendo, eppure già respiro un'aria diversa.

Soltanto quando la macchina si addentra in una buia e silenziosa radura, fatico a focalizzare la mia attenzione sulla natura che mi circonda.

Vi è solo buio, alberi altissimi dalle foglie grandi che ricreano una sorta di tunnel con i loro lunghi rami.

Gli insetti notturni canticchiano strane melodie, ma ciò non fa che aumentare la mia improvvisa sensazione di agitazione.

Controllo Google Maps per vedere quanto manca: soltanto una decina di minuti.

Ma dove diavolo siamo finiti? Dalle foto non mi pareva affatto che ci fosse questa zona fitta e inquietante.

L'unica cosa illuminata è la strada, la linea gialla posta al centro l'unico colore ben visibile.

Papà e mamma continuano a chiacchierare indisturbati perciò cerco di tranquillizzarmi e chiudere nuovamente gli occhi pensando a tutto ciò che dovrò fare una volta arrivato a casa.

Ma una brusca frenata mi fa sbattere violentemente le ginocchia al sedile.

«Cazzo» Mormoro, e mi stupisco quando non ricevo occhiatacce da parte dei miei genitori.

Entrambi si sono zittiti mentre mio padre impreca sottovoce. Qualcosa deve essere passato davanti facendolo frenare di scatto.

Passano all'incirca cinque minuti quando l'auto comincia a comportarsi in modo strano.
Sembra come se singhiozzi, come se fosse a secco e quindi senza benzina sufficiente.

Poi, stop. Ferma. La macchina si è spenta.

«Papà che sta succedendo?» Chiedo in preda al panico sporgendomi dal sedile.
Mio padre si agita leggermente tentando per la ventesima volta di accendere l'auto, ma niente.

«Non capisco che diavolo abbia quest'aggeggio.»

«Lasciami provare, tesoro.» Ribatte mamma, ricevendo uno sguardo omicida da parte di papà.

Ma guarda! I tuoi poteri magici riusciranno a farla ripartire sicuramente mamma!

Rabbrividisco rendendomi conto che siamo soli nel nulla, tra questa vegetazione più che abbondante e selvatica. Ormai anche gli abbaglianti della macchina sono spenti.

«Provo a controllare cosa c'è che non va nel cofano. Amore, fammi luce con la torcia del telefono.»
Detto questo entrambi i miei genitori scendono, mamma attiva la torcia dalla luce flebile e papà cerca di smanettare in cerca di una soluzione.

Tamburello nervosamente le dita sul finestrino quando il mio sguardo si sposta alle spalle di mamma e papà. Esatto punto in cui qualche secondo dopo un viso appare, facendomi letteralmente raggelare il sangue.

Sobbalzo tappandomi la bocca, e lo stesso fanno loro.

«Che ci fate qui?» Chiede il ragazzo appena comparso, la sua figura è poco visibile per la mancanza di luce.

Riesco, però, ad intravedere uno strano ghigno sulla sua bocca.

«Ecco, l-la macchina si è fermata e non riusciamo a ripartire.» Papà risponde, indietreggiando lentamente fino a sbattere all'auto nel momento in cui il ragazzo fa per avvicinarsi, lentamente.

Ma che diavolo ci fa una persona nel bel mezzo del nulla?

«Oh, è davvero un peccato.» Risponde.

Faccio per scendere e raggiungo velocemente i miei genitori, entrambi visibilmente agitati.

Punto la mia torcia sul viso del ragazzo, cercando di non risultare maleducato per il gesto, e subito mi rendo conto che egli ha più o meno la mia stessa età, forse uno o due anni più grande.

Ma rimango fulminato dalla sua perfezione.
Dal suo viso a dir poco... etereo.

I suoi occhi scuri e penetranti si spostano sulla mia figura, e il sorrisetto furbo e malefico precedentemente assunto si trasforma, le labbra piene ora ridotte in una linea.

Quando incrocio il suo profondo sguardo, abbasso d'impulso il mio, focalizzandomi sui tacchi troppo alti di mia madre.

«Saresti in grado di aiutarci?» Dico timidamente, e quando lo guardo un'altra volta noto che mi sta ancora fissando, i capelli disordinati che gli ricadono sulla fronte.

Lui sembra rifletterci, anche se apparentemente, visto che non stacca gli occhi dal mio viso, e dal mio corpo in generale, neanche per un secondo.

«Vedo che posso fare.»

Si avvicina silenzioso, squadrando ciò che ha davanti. Dopodiché inserisce una mano tra la ferraglia e inizia a smaneggiare, in una maniera alquanto incomprensibile.

Ciò che mi spaventa a morte è che sta facendo tutto... senza nessuna luce puntata al di sopra del punto che sta ispezionando.

«Dovrebbe andare.» Si rivolge più a me che ai miei genitori, i quali non degna della minima attenzione.

Annuisco, e papà, come risvegliatosi, controlla se funziona.

Ed è così.

«Oddio, non sappiamo davvero come ringraziarti.» Dice mamma sollevata, e mio padre concorda animatamente.

Il ragazzo fa spallucce, prima di passarsi una mano nei capelli e guardarmi di nuovo negli occhi.

«Grazie.» Sussurro, e lui piega la testa da un lato, scrutandomi per l'ultima volta.

Poi, sparisce senza che io me ne accorga.

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