68. Per sempre.

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"Piangevo per la specie umana. Per il fatto che l'uomo non è per niente buono, ma era un bluff perché in realtà piangevo per la mia solitudine, la mia delusione,la presa di coscienza della mia mortalità,la consapevolezza che l'universo è un luogo buio,vuoto, e la vita è soltanto un giro di giostra, e quando squilla il campanello e tu devi scendere dalla giostra, metti i piedi sul nulla. E a quel punto, è tutto finito, non c'è più niente. Carne e anima potrebbero anche non essere mai esistite." -Joy R. Lansdale.

Riaprii le palpebre,pesanti come macigni, e per qualche secondo non ricordai nemmeno dov'ero, come ci ero arrivata, o perché. Non ricordavo niente, finché passando, il tempo, portò con se tutto ciò che avevo vissuto in quei giorni, tutti i miei sentimenti tornarono, il mio cuore riprese a battere,il mio cervello ad elaborare pensieri e paranoie. Tornò tutto alla normalità in qualche attimo, tornai ad essere Desteny Blake in qualche secondo, anche se io avrei preferito essere nessuno per tutto il resto della vita.

Era cominciato tutto con quella chiamata. Tutto aveva iniziato a frantumarsi come un muro di mattoni che veniva buttato giù tutto in un colpo, persino la strada sotto i miei piedi sembrava cedere, sembrava si spaccasse in due,come aveva fatto il mio cuore, anche se continuava a battere all'impazzata. Le mie gambe continuavano a muoversi, trasportandosi dietro il peso di tutto il mio corpo intorpidito; il respiro affannoso non lo sentivo, in realtà, non riuscivo a sentire niente. Sentivo tutto come se avvenisse a chilometri da me, come se in quel momento, per quelle strade ci fossi stata solo io e una tremenda cupola scura a circondarmi. Non ricordavo molto di ciò che davvero era successo dopo quella chiamata, perché per la maggior parte del tempo ero stata sotto quella cupola scura che mi impediva di vedere e sentire ciò che avevo attorno, e visto che in quel momento quello che mi circondava era solo e soltanto un immenso dolore, avevo deciso che sarei rimasta volentieri lì sotto, se questo significava non sentirlo.

Ricordai come,da piccola, mi tappavo le orecchie con le mani, quando non volevo sentire niente, e come da grande,poi, le mie mani fossero state sostituire dalle cuffie collegate al mio lettore mp3 spento, perché in quei momenti non riuscivo nemmeno ad ascoltare la musica: la musica e i testi rievocavano ricordi,emozioni e io non volevo sentire niente, proprio niente, nemmeno i pensieri che facevano un rumore assordante nella mia testa, anzi, soprattutto quelli. Erano i miei momenti di pace, quelli che riservavo a me stessa per non impazzire del tutto, quelli di cui avevo bisogno quando il dolore era troppo forte, come in quel momento. Avrei tanto voluto mettere le mani sulle orecchie per far alleggerire il peso che sentivo allo stomaco, che poi non era un peso, era solo dolore vero e proprio. La gente inventava una marea di definizioni, di nomi, di aggettivi per esprimere il concetto di dolore, per fare in modo che magari risultasse migliore di ciò che era , per fare in modo che svanisse, almeno in piccola parte. Ma era tutto inutile, perché quando il dolore cominciava ad attanagliarti come un serpente alla gola, era quasi impossibile non uscirne strozzati,morti. Era impossibile evitare il dolore quando lo sentivi addosso come una seconda pelle, quando sentivi la sensazione di vuoto allo stomaco, quando sentivi di non essere abbastanza forte nemmeno per restare saldo sulle tue gambe. Un dolore del genere andava vissuto, consumato, anche se poi,col tempo, finiva per consumare te. Era quel tipo di dolore che pensavo di aver vissuto, visto che la mia vita non era mai stata tutta rose e fiori, ma purtroppo non avevo ancora idea di ciò che voleva dire provarlo così.

Forse ero arrivata all'ospedale da sola,forse Jace era stato al mio fianco per tutto il tragitto, non riuscivo a ricordare niente, oltre al fatto di essere arrivata lì e aver trovato mio fratello accovacciato per terra in un angolo della sala con le mani tra i capelli e la testa china verso terra, tremante. Ricordavo di non averlo mai visto tanto vulnerabile, tanto giovane, sembrava un bambino al quale era stato tolto il suo giocattolo preferito. Peccato che lui era cresciuto, e che in posti come quelli non si giocava. Lì si viveva o si moriva. Non c'era spazio per nient'altro, nemmeno per il dolore e per le lacrime. Comunque fosse, io non ricordavo nient'altro, ma sapevo non fosse semplice shock, non ricordavo niente perché non volevo. Non volevo ricordare com'era avere la sensazione di aver perso la parte più importante di me, non potevo sopportare ancora l'idea di aver perso, di nuovo. Avevo perso e mi ritrovavo di nuovo al punto di partenza. Tutti quei mesi di miglioramento, di 'rinascita' erano svaniti nel nulla per me, anche se non potevo tornare indietro, e non riuscivo a pensare di poter andare avanti. Magari col tempo avrei cominciato ad accettarlo, come avevo sempre fatto nella mia vita: alla fine mi abituavo e accettavo tutto ciò che la vita e le persone volevano infliggermi. Ma da quando avevo ricevuto quella chiamata da mio fratello non riuscivo a pensare lucidamente, forse era semplicemente troppo presto. Forse non sarei morta di dolore, che in quel momento sembrava volermi soffocare a tutti i costi, forse avrei superato anche quella, o forse ero solo una povera illusa.

La ragazza di vetro (DISPONIBILE CARTACEO!)Where stories live. Discover now