Capitolo 42

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La mia debolezza. Avrei dovuto lavorare sulle mie paure, sulla sensazione di non essere abbastanza.
Perché io non mi sentivo abbastanza.
Non ero stata nemmeno capace di aiutare un'amica in difficoltà.
Ero come Clara, era quella la verità.
Giacevamo su quel prato inermi, aspettando il corso degli eventi.
Avremmo dovuto fare qualcosa, ma cullarci in finte e inutili sicurezze ci aveva fatto credere che non dovessimo fare nulla.
A me e Clara andava bene così, era quello il problema. La triste realtà.

<< Mi dispiace >> le avevo sussurrato piano, nel momento in cui si era addormentata.
<< Mi dispiace tanto >> mormorai tra me e me. Ed era così dannatamente vero: mi dispiaceva per non aver fatto abbastanza, per non essere stata all'altezza.
Per essere stata a guardare senza aver fatto nulla.

Dormimmo insieme, ci accasciammo sul nostro letto ispido. Passarono ore, l'indaco su di noi assunse i toni del blu e del nero. Passammo così l'intera notte, rimanendo accanto.
Mi ero svegliata più volte, imperlata di sudore, con la camicia appiccicata alla pelle.

Lo scrosciare del torrente mi aveva attirato a sé e seduta sulla riva, avevo lavato via lo sporco con l'acqua limpida e rinfrescante.
Mi ero spogliata della mia vecchia veste, l'avevo sostituita con una nuova e più consapevole.

Sorrisi debolmente.
Quello, sarebbe stato l'ultimo giorno.
Dopodiché, l'incertezza più totale.

La fine non è mai facile. Gli addii sono dolorosi. Sempre.

Mi svegliai in un nido fiorito, attorno a me piccoli crisantemi bianchi e blu.

Clara era nuovamente sparita, mi alzai malinconica e delusa. Il mio corpo sembrava non rispondere ai comandi, le gambe erano indolenzite, la testa doleva e non funzionava come avrebbe dovuto.
L'agitazione negli ultimi giorni mi aveva portato a perdere il controllo.
Non ero più padrona di nulla, perfino il mio corpo sembrava non voler più avere niente a che fare con me.
Rimasi immobile sotto un sole caldo e rasserenante.
Mi godetti la pace, la tranquillità del momento.
L'essere in bilico era una condizione che avevo sperimentato spesso, ma mai come allora mi diede modo di riflettere.
Ridimensionai me stessa e i miei problemi, divenni un puntino piccolo in quell'universo idilliaco.
Abbracciai le mie convinzioni, mi illusi di un futuro migliore.
Lentamente, le mie gambe avevano ripreso a camminare.
Le avevo stimolate tastandole delicatamente con le mani, avevo cercato di camminare cadendo e riprovando più volte.

Dovevo sbrigarmi, quel giorno avrei affrontato i miei demoni.
Mi diressi verso la mia vecchia casa, il mio rifugio sicuro e confortevole.
Le foglie e i rami si erano seccati, la pioggia e il vento avevano distrutto una parte laterale di quella capanna, che appariva instabile, rovinata.

Mi portai al petto uno di quei rametti, premetti quel groviglio di legno sul cuore, alla mente riaffondarono svariati ricordi di me in quella casa.
Non la abbondavo mai, mi rintanavo spesso in quel giaciglio naturale.
Eppure, contro ogni previsione, mi ero innamorata dell'uomo che mi aveva allontanato da quell'ambiente confortevole.
Mi ero innamorata di un uomo che in poco tempo aveva stravolto la mia vita, Ruslan era riuscito in un'impresa tanto rara e ardita.

Non avrei più trovato riparo tra quelle mura ingrovigliate.

Della mia vecchia casa rimaneva soltanto il ricordo.
Avrei trovato conforto altrove, dentro di me.
Dovevo far pace con me stessa, per trovare la mia stabilità.
Amarmi, anche se sarebbe stato difficile.
Accettare il mio modo di essere, quei pensieri intrusivi che spesso mi tormentavano.
Il mio cuore aveva ritrovato un suo equilibrio, il magone che premeva e devastava il mio petto aveva iniziato a dissolversi.
Capii cosa significasse casa.

Casa. Una parola così comune, banale.
Eppure quelle quattro lettere racchiudevano un significato profondo, difficile da spiegare.
Ero diventata la mia nuova casa.
Mi sarei ricostruita, pezzo dopo pezzo avrei raccolto i frammenti del mio cuore.

Avrei sbagliato e sarei andata avanti.
Avrei fatto ciò che mi sentivo di fare, rischiato ogni cosa.
Non avrei più aspettato, né sarei rimasta a guardare, indifesa.
Avrei lottato.
Per me, per Clara.

Scorsi da lontano le punte blu delle falde, i mattoni bianchi in pietra. Lentamente, ero tornata nel luogo in cui mi sentivo più a disagio.
Ma avrei dovuto affrontarlo.
Trovai la porta socchiusa, come al solito.
Lui era lì ad aspettarmi.

Il salone principale era avvolto da un alone di ricordi.

Ruslan era seduto su di una poltroncina, chiacchierava amabilmente con Olya.

<< Sta diventando troppo, questa situazione è insostenibile >> si era lamentata lei.
Mi addentrai in quella sala luminosa, fissai l'arredo classico ed elegante.
Quella stanza era ritornata ad essere la stessa di un tempo, mi sporsi verso gli specchi che ne contornavano le pareti.

Non vidi altro che la mia immagine sbiadita e spaesata.

Immaginai stessi ancora sognando o forse era probabile stessi continuando quella bizzarra visione.
Nessuno si loro si accorse di me, della mia presenza.

Invisibile, mi sedetti accanto ad Olya sul divano chiaro e soffice.

Sprofondai nella stoffa morbida, in mezzo ai cuscini ricamati, e fissai perplessa la figura tormentata di Ruslan.
In quel momento era combattuto, aveva un'espressione così cupa.
<< Ci sto lavorando, Olya >> aveva precisato, spazientito, passandosi le mani tra i capelli.

<< Sappiamo entrambi cosa provi >> tagliò corto lei, mettendolo alle strette.
La guardai attentamente, rincuorandomi non fossi osservata. 

Per un attimo ero io a studiare loro.

Olya appariva stanca e irritata, sembrava provata da quella conversazione.
Mi chiesi da quanto stessero andando avanti.
La sua vestaglia in cotone, allacciata distrattamente alla vita, l'acconciatura spettinata e le occhiaie evidenti, erano un chiaro segnale di una stanchezza sofferta.
Sembrava fosse caduta la maschera anche a lei, che da perfetta e impeccabile, si era tramutata in una ragazza piena di dubbi e paure.

Ricordai le parole di Ruslan: "Siamo esseri umani, dopotutto".

RiflessiWhere stories live. Discover now