Extra: Gabriele

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Solito posto?
Quello fu il messaggio che illuminò il mio cellulare svegliandomi da quel dormiveglia nel quale mi trovavo. Ero stanco e volevo riposare ma, al contempo, ero in attesa e non potevo permettermi di dormire.
Lo rilessi un po' infastidito; odiavo quando faceva così. Capivo il vedersi in segreto a notte inoltrata però chiedermi di uscire sempre dopo mezzanotte era una po' troppo visto che era consapevole di che problema costituisse per me.
Storsi il naso infastidito ma ero conscio che sapeva sarei andato, lo sapeva sempre e lo sapevo anche io.
Non riuscivo a resistergli e ci tenevo troppo a lui per puntare anche solo leggermente i piedi.
La mia migliore amica odiava questo comportamento; sosteneva che dovevo farmi valere, anche solo un po' di più, e non dipendere così tanto da lui.
Facile per lei giudicarmi, non era mai stata innamorata; d'altro canto, ero consapevole, che lo faceva per me perché odiava vedermi triste.
Arreso, mi alzai dal letto abbandonando le calde coperte e indossai una tuta pesante poi spalancai la porta-finestra che, dalla mia stanza, dava sulla strada e, grazie al buio della notte, sgattaiolai fuori dalla casa di mio padre senza che lui mi scoprisse.
Con il mio costante malumore e gli auricolari nelle orecchie, raggiunsi il parco giochi che stava dietro le scuole elementari della città e lo vidi, appoggiato allo scivolo.
- Sapevo che saresti venuto.
I suoi capelli rossicci si vedevano anche nell'oscurità, leggermente illuminati dalla luce quasi fulminata del lampione più vicino.
- Sai un po' troppo. - Dissi malizioso.
Mi avvicinai per rubargli un bacio, come da copione, ma questa volta c'era qualcosa di diverso perché lo scrittore aveva cambiato la storia e lui si allontanò
- Gabri, dobbiamo parlare.
Che gli prendeva? Da quando dovevamo parlare?
Gli appuntamenti notturni erano l'unico modo che avevamo di essere noi stessi senza che qualcuno scoprisse che lui fosse gay; aveva il terrore di fare coming out e a me piaceva troppo per oppormi alla sua scelta.
Non mi illusi neanche di sperare che fossero notizie buone perché il suo volto, seppur nella penombra, mi permetteva di vedere la tristezza che ne traspariva.
- Non parliamo già abbastanza? Mi dai del frocio, del coglione, del senza palle.
Avrei dovuto essere più gentile, ne ero consapevole, ma non ero scappato di casa per litigare con lui; per quello, bastava la luce del giorno.
Lo vidi quasi scossò da un fremito; non capivo se fosse colpa del freddo di fine ottobre o se, semplicemente. la rabbia che stava impossessando di lui.
- È di questo che voglio parlare.
Lo osservai sedersi sul fondo dello scivolo in metallo; sembrava quasi scosso e mi preoccupai.
Era sempre tante cose, tutte allo stesso momento, felice, triste, arrabbiato, annoiato, infastidito, ma mai turbato.
- Marti, che c'è?
Lui rimase in silenzio a fissarmi con i suoi lucenti occhi verdi che ricordavano smeraldi.
- Mi hai fatto uscire di notte, sto rischiando di prenderle da mio padre e ora tu parli.
Era la prima volta che mi sentivo così deciso davanti a lui; forse i discorsi motivazionali di Chiara avevano avuto qualche effetto.
- Dobbiamo chiuderla qui.
Ogni sillaba pronunciata da lui, ogni parola che era uscita dalla sua bocca era come una lama affilata sul mio cuore.
Non avevo sopportato quasi un anno di insulti e percosse da parte sua solo essere lasciato nel buio di un parco giochi dimenticato. Lo avevo fatto perché sapevo che, prima o poi, sarebbe cambiato, si sarebbe accettato e avrebbe compreso che non c'era nulla di male nella nostra relazione.
Ma in quella momento, ogni calcio, ogni punto, ogni schiaffo, ogni parola che mi aveva detto, erano nuovamente presenti e li sentivo sul mio corpo come la prima volta.
Soffocai un urlo e non raccolsi nemmeno il cellulare che mi era caduto in preda ad un sussulto.
- Non ti faccio bene.
- Sono forte.
Sentii il calore della sua mano a contato con il gelo del mio braccio; era come fuoco ardente che mi stava bruciando vivo.
- Non sei tu il problema, sono io.
Non ero mai stato così rabbioso in vita mia o forse si e in quel momento stavo finalmente buttando fuori quel sentimento che mi attanagliava da tempo.
- Sono io il problema. - Irritato, scandii ogni parola prima di proseguire. - Quale sarà la prossima stronzata? Che sono troppo per te?
Volevo urlare, volevo fargli sentire la mia rabbia ma uscii un suono così flebile che sembravo quasi un gatto indifeso.
- Ga, è così.
Chiara aveva sempre avuto ragione, mi aveva messo in guarda da Martino e io, come un allocco, avevo creduto ad ogni sua singola parola solo perché l'avevo sempre reputato migliore di quello che era veramente.
- Chi è?
Fu come uno sputo, quella frase, e, allo stesso tempo, come una lama che scendeva in profondità trapassando il mio cuore già ferito.
- Chi?
- Un ragazzo o una ragazza?
Non riuscivo a contenere la rabbia e allo stesso tempo a non vedere il suo sguardo ferito senza rimanerne colpito; era un bravo attore.
- Non è nessuno, semplicemente non ti faccio bene.
Non aggiunsi altro, spontaneamente mi voltai per andarmene ma mi bloccò con una presa.
- Gabri, lo sto facendo per te.
Fui spaventato dalla mia stessa risata, era isterica, quasi folle.
- Martino, se ti interessasse qualcosa di me, non l'avresti fatto.
Il suo sguardo non lasciò trasparire emozioni, era glaciale. Mi prese per entrambe le braccia e mi bloccò, prima di riprendere a parlare, per evitare che scappassi.
- Ga, c'è qualcosa di sbagliato in me.
- C'è qualcosa di sbagliato in questa frase.
Il suo sguardo si fece sofferente.
- Non sto parlando dell'omosessualità.
Mi trattenni dal ridergli in faccia; non volevo ferirlo perché non volevo abbassarmi al suo livello.
Giocava coi sentimenti delle persone, l'aveva sempre fatto e io ero solo una pedina in più nella sua scacchiera.
- Disse quello che di vergogna di stare con me.
La stretta sui polsi si fece più forte e compresi che,
il giorno dopo, avrei dovuto nascondere i suoi segni.
- Ga, non sono in me. Un giorno desidero stare con te e quello dopo godo nel feriti. C'è qualcosa che non va, lo capisci?
L'ultima frase era stata un sussurro e la sua sincerità fu ancora più dolorosa della menzogna nella quale stavo vivendo.
- Ti importa di me?
I suoi occhi verdi mi studiarono, silenziosi, ma riuscii a leggere la risposta: si, certo che mi importa di te.
Non l'avrebbe mai detto apertamente e il suo silenzio fu terribile; mi stava allontanando e me ne stavo rendendo conto troppo tardi.
Ripresi a parlare io. - Si, ti importa. Lo vedo.
Rimase ancora in silenzio e la presa sui polsi si fece ancora più dolorosa.
- Martino...
- No, non provo nulla per te.
Il suo volto era talmente apatico, i suoi occhi talmente glaciali, che non fui più convinto stesse mentendo.
Mi liberai dalla presa, raccolsi il cellulare e senza aggiungere altro me ne andai; ero stufo marcio di sentire le sue bugie.
Avrei voluto scrivere a Chiara, o andare da lei, ma sapevo che stava dormendo e non volevo infastidirla.
Pensai di non tornare a casa, prendere un bus e andarmene per sempre ma non avevo soldi con me quindi, quando vidi la luce accesa nell'abitazione, mi arresi all'evidenza di essere in un mare di guai.
Non appena rientrai dalla porta principale lasciata spalancata di proposito, ci fu mio padre, col suo solito sorriso fin troppo tirato, ad accogliermi.
- Dove sei stato?
- Da nessuna parte.
Un schiaffo sul braccio; anche questo avrebbe lasciato il segno. Era attento a non picchiarmi in punti dove non fosse evidente, al contrario di Martino che aveva lasciato diversi lividi sui polsi, che lui notò immediatamente.
- Ancora con quel frocio
Come se io non lo fossi.
Fu solo un pensiero, non risposi e arrivò un'altra sberla ma non mi importava; nessun dolore fisico avrebbe sostituito quello che stavo provando in quel momento.
Mi avviai in stanza e mi lanciai, sul letto, avvilito.
Tentai di addormentarmi cercando di credere che quello fosse solamente un brutto sogno ma fu una notte burrascosa e, in preda a pensieri orribili, mi addormentai quando la luce filtrava già dalla persiana.

(Un)happier than everDove le storie prendono vita. Scoprilo ora