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Il momento più solitario nella vita di una persona è quando sta guardando il suo intero mondo che va in pezzi, e tutto ciò che può fare è fissarlo con aria assente.
F. Scott Fitzgerald

16 marzo 20XX

Lo schermo del computer segnava le 17:37. Dopo circa diciassette ore di viaggio, due film e "noi siamo infinito" di Chbosky letto per intero era finalmente giunto il momento di atterrare. Spensi il portatile, raccolsi la pila di libri che avevo appoggiato al tavolino e infilai tutto alla rinfusa nel mio zaino. «Iie.» sibilò mia madre trapassandomi con uno sguardo affilato come coltelli. «No.» Alzai la testa e osai mantenere gli occhi fissi sui suoi solo per pochi secondi prima di riporre con più cura le mie cose nell'Eastpack acquamarina afflosciato ai miei piedi; dopotutto se aveva usato un rimprovero così diretto e severo un motivo doveva pur esserci.

«Gomen nasai.» farfugliai imbarazzata «Mi dispiace.»

Quando scendemmo dall'aereo, quella più sorpresa ero sicuramente io; non mi stupiva che mia madre risultasse impassibile dato che la freddezza faceva parte del suo DNA in percentuale quasi superiore a tutto il resto del suo codice genetico. Prima di allora avevo messo piede al "Tokyo Kokusai Kuko" (meglio conosciuto come "Haneda Kuko" per i giapponesi e "Aeroporto Internazionale di Tokyo" per il resto del mondo) solo un paio di volte, e molti anni prima. Durante il tragitto verso l'interno dell'edificio devo aver incrociato almeno un centinaio di persone tra passeggeri, piloti, addetti alla sicurezza, hostess e facchini.

«Hikori,» chiamò mia madre, «non restare lì impalata e seguimi, o ti perderai.»

«Ti ho già detto di non chiamarmi così.» risposi iniziando a tenere il suo passo. «Non mi piace.»

«Solo perché è il tuo secondo nome non significa che io non possa usarlo.» La sua voce sovrastava il rumore assordante dei motori degli aerei ormai a molti metri alle nostre spalle. «E adesso che siamo qui, penso che lo userò più spesso.»

«Spero non ti aspetti che io faccia lo stesso.»

Varcammo l'ingresso dell'aeroporto, e mia madre si arrestò per un attimo poco oltre le porte scorrevoli. «Perché ti ostini tanto? Io lo trovo un nome stupendo.»

«Certo, lo hai scelto tu...» mormorai tra me e me, ma nulla sfugge a Yuriko Matsumoto. E il mio commento rientrava in quel "nulla". «È solo che preferisco essere chiamata Jade, e il motivo lo sai.»

Mia madre riprese a camminare con la stessa velocità di prima. «Sì, sì. Perché "tu sei americana e un nome strano come quello attira troppo l'attenzione". Giusto?» rispose sedendosi su un divanetto vicino ad un grande vaso di fiori arancioni.

«Giusto» confermai soddisfatta.

Lei ridacchiò mentre estraeva il suo smartphone dalla borsa color pece. «Tesoro, da adesso le cose si invertiranno.»

«No, perché nei documenti il mio primo nome resta sempre Jade ed è così che mi farò chiamare.»

«Staremo a vedere, Hikori.»

La scrutai con uno sguardo truce, cercando di imitare al meglio quello che lei aveva rivolto a me poco prima in aereo; fatica sprecata, dato che era troppo impegnata a pigiare sullo schermo del cellulare. Non avendo nulla da fare cominciai a guardarmi intorno, osservando la gente che andava avanti e indietro con quell'aria indaffarata tipica degli orientali. «Certo che qui hanno proprio tutti i capelli neri, non si salva nessuno.»

Mia madre sospirò alzando lo sguardo. «Non parlare così di questa gente.»

«Dai mamma, tanto non capiscono quello che dico.»

Spicy caramelWhere stories live. Discover now