Capitolo 41

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Clarissa

Non ho idea di che ora sia né da quanto tempo mi ritrovo seduta su un pavimento lurido, rannicchiata in un angolo a stringermi le ginocchia al petto.

Continuo a fissare le sbarre della cella in cui mi trovo, sperando che arrivi qualcuno a tirarmi fuori di qui.

Le luci al neon mi feriscono gli occhi stanchi e arrossati dal pianto.
Non ci sono finestre e non saprei dire se è ancora notte.

Ci sono solo io in questa cella, per fortuna, ed è isolata da tutto il resto della stazione di polizia.

Nessuno viene a vedermi. Nessuno che chiede di me.

Vorrei solo che Ethan apparisse qui e mi portasse via.

A questo punto mi andrebbe bene anche se si presentasse mio padre per tirarmi fuori di qui, in tutta la sua splendente gloria omicida.

Peccato che non mi abbiano nemmeno fatto fare una telefonata, nonostante lo abbia chiesto fino allo sfinimento.

Mi abbraccio più forte le ginocchia, cercando di controllare i tremiti che mi scuotono il corpo. Penso e ripenso a Ethan ad aspettarmi al garage.

Spero che abbia intuito dal mio messaggio che qualcosa era andato storto, ma più probabilmente avrà pensato che lo abbia abbandonato di nuovo.

Mi piange il cuore al pensiero di lui che mi aspetta invano. Chissà cosa starà pensando ora. Ma avrò modo di scusarmi. Di nuovo.

Gli spiegherò tutto stavolta. Ho sbagliato a non raccontargli la verità quando ne ho avuto l'occasione. Ma non potevo permettere che ammazzasse Jack finendo così nella cella accanto a me. Gli avrei detto tutto una volta a distanza di sicurezza da questa città.

Ma ora mi pento di aver tenuto la bocca chiusa. Se avessi confessato, probabilmente ora non mi troverei qui. In prigione.

Dio mio! Sono stata arrestata. Ancora non riesco a crederci. Non ho nemmeno idea di quale sia la pena per guida pericolosa e resistenza all'arresto...

Di quanto accaduto dopo che mi hanno fermata ricordo ben poco. È successo tutto così in fretta... L'agente mi ha intimato di scendere dall'auto, poi mi ha afferrato per un braccio e mi ha trascinata verso la volante. Mi ha fatto salire sul sedile posteriore, facendomi abbassare il capo.

Per fortuna non mi ha messo le manette. Evidentemente non mi riteneva sufficientemente pericolosa. Mi aspettavo che mi leggesse i miei diritti, invece nulla.

Ha preso posto sul sedile passeggero e ha cominciato a parlottare sottovoce con l'altro agente alla guida.

Appena entrati nella stazione di polizia ho chiesto di poter fare una telefonata. Nessuno mi ha risposto.

Mi hanno condotto in silenzio verso le celle tenendomi per un braccio ciascuno, ma quando ho visto gli occupanti ho puntato i piedi a terra e ho cominciato a divincolarmi.

Non potevano rinchiudermi davvero in una cella con prostitute e delinquenti con la faccia da assassini!

L'agente che mi ha arrestata ha dovuto sollevarmi da terra per costringermi a muovermi. Mi hanno portato in una zona lontana dalle altre celle affollate e lontana dagli uffici, per fortuna. Mi hanno fatto entrare e poi hanno chiuso la porta della cella con un sinistro suono metallico che ancora mi riverbera dentro.

Mi sono attaccata alle sbarre e ho chiesto più e più volte che mi facessero telefonare a qualcuno. Ma se ne sono andati senza mai voltarsi, nonostante le mie urla disperate.

Ho urlato finché ho avuto fiato.

Poi mi sono arresa.

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Mai più con teWhere stories live. Discover now