Prologo

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Potrei elencare almeno tre più che valide ragioni per cui trasferirci nella mia cittadina natale non è una buona idea.

Ragione numero uno: io e mia madre non avremmo un posto tutto nostro dove stare e dovremmo convivere con la nonna.

Lei non è esattamente lo stereotipo di una nonna anziana che trascorre le sue mattinate a cucinare e poi si fa un sonnellino di due ore dopo pranzo. No, è esattamente il contrario.

Mia nonna si chiama Raffaella, anche se in famiglia è "nonna Raffa" per tutti. Ha poco più di sessant'anni, ma ne dimostra decisamente di meno, forse perché sa truccarsi molto meglio di me oppure perché la sua vita le ha concesso il lusso di non far vedere il proprio trascorrere nelle rughe che alla sua età avrebbero dovuto solcare la sua fronte, circondare la sua bocca e i suoi occhi, ma che invece non ci sono.

Non so cosa io non trovi di così allettante nell'andare a vivere nella sua villa troppo grande per una donna sola come lei. Non ho mai conosciuto il nonno e temo che neanche mia madre lo ricordi perfettamente. La nonna non ne parla mai, ma credo lo faccia piuttosto perché parlare del proprio passato, a volte, fa capire quanto tu abbia faticato e debba farlo tuttora per rendere il presente migliore di quello che ormai è solo un ricordo amaro.

Ragione numero due: la mia vita non è lì, in quella villa, in una città che dovrebbe essermi familiare, ma di cui in realtà non conosco nient'altro se non il dolore.

E questo ci porta alla ragione numero tre: siamo fuggite troppi anni prima da questo posto, perché tutto era diventato troppo, tutto ricordava lui: i suoi occhi, il suo sorriso, le sue mani, le sue parole, le sue grida. Tutto era diventato doloroso. Per me, per la mamma ed anche per la nonna.

Forse lei è stata la più forte. È rimasta, ha pianto da sola e chissà quante volte, in una casa vuota, in una città che l'ha tradita, che ha tradito tutte noi.

Ma alla fine, magari non completamente e lasciando sulla nostra pelle le cicatrici di un passato tribolante, ce l'abbiamo fatta. Abbiamo ricostruito le nostre vite: io e la mamma in un piccolo appartamento dall'altra parte del paese e la nonna a casa sua, lontano da noi. Forse è stato un bene o forse abbiamo sbagliato tutto e adesso non posso fare altro che chiedermi cosa succederà da oggi in avanti, come potremo continuare a sopravvivere rischiando di annegare nei nostri ricordi.

«Sei pronta, Mara?».

Mia madre ha parcheggiato all'inizio del lungo viale d'entrata della villa di mia nonna ormai da un quarto d'ora, eppure non si è ancora decisa ad aprire la portiera. Dal canto mio, invece, sto solamente aspettando che lei esprima un minimo dubbio su questa scelta fatta così all'improvviso per dirle che facciamo ancora in tempo a tornare indietro, alla nostra vita, che non è troppo tardi e che possiamo ancora salvarci da questo posto pieno di ricordi.

Alla fine, però, apre lo sportello senza attendere risposta. Non la biasimo: so perfettamente quanto sia combattuta con se stessa. Quello che non riesco a capire è il motivo di questa decisione. Prima di quest'oggi gliel'ho chiesto talmente tante volte che alla fine ha dovuto minacciarmi che, se non mi fossi decisa a smetterla con il mio interrogatorio, non saremmo tornate a casa nemmeno alla fine del mio anno scolastico. Ho dovuto desistere, anche se quella domanda non ha ancora smesso di ronzarmi in testa.

La vedo fare il giro attorno all'auto nelle sue ballerine blu e aprire lo sportello posteriore destro, per recuperare la sua borsa e un borsone nero che non abbiamo potuto mettere nel portabagagli, perché già pieno fino all'ultimo centimetro di spazio.

Quando si è infilata la borsa a tracolla e il borsone in spalla, bussa leggermente sul mio finestrino per incoraggiarmi a scendere.

La guardo controvoglia attraverso il vetro sporco e poi poso lo sguardo sulla villa davanti a noi. Sarà davvero la nostra nuova casa? È così diversa dal nostro vecchio appartamento fuori città, in affitto, che puzzava di muffa perché l'umidità era la nostra migliore amica e il sole non sembrava voler mai farsi vedere dalle nostre finestre. Eppure, era perfetta per noi e mai e poi mai ho creduto che potessimo avere di meglio, perché il mio "meglio" era in mia madre, nei miei amici e nel mio fidanzato, Stefano. Adesso, però, tra il mio "meglio" e me, ci sono centinaia di chilometri di distanza e questo mi fa agitare ancor prima di mettere piede fuori da questa auto.

Avvolgo le cuffiette velocemente e le metto nella tasca esterna del mio zaino che ho tenuto sulle gambe per tutta la durata del viaggio. Infilo il cellulare nella tasca posteriore dei miei jeans e lego i miei capelli ricci e castani in uno chignon orribile e disordinato.

Beh! Ho deciso che sarà questa la parte migliore di me che spetterà a questa città e ai suoi abitanti...

Apro la portiera e la richiudo con un tonfo dietro di me, scendendo dall'auto.

Metto lo zaino in spalla e prendo il borsone che ha la mamma. È troppo pesante per lei e poi sono abituata a prendere i carichi troppo pesanti fin da piccola. Tra le due, in assenza di lui, gli incarichi maschili vengono generalmente attribuiti a me e questa è un'abitudine che in qualche modo completa la nostra famiglia.

«Andiamo, dai» dice mia madre, dopo aver sospirato rumorosamente un'ultima volta.

Ci incamminiamo lungo il viale l'una accanto all'altra, pregando entrambe silenziosamente Iddio che questo nuovo inizio non distrugga il precario equilibrio che siamo riuscite a costruire in questi ultimi dieci anni, dopo la morte di papà.

La prima volta ti travolgeWhere stories live. Discover now