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Sono quasi arrivata a scuola quando il mio cellulare vibra dal sedile accanto al mio, posto che ho deciso di occupare con il mio zaino e il cellulare a cui sono attaccate le cuffiette per non far sedere nessuno. A dirla tutta, il mezzo è pieno poco più della metà della capienza massima, ma non si sa mai che stamani non incontri qualcuno di particolarmente loquace ed estroverso.

Infilo la cuffia destra e apro la cornetta.

«Buongiorno Mara» dice una voce maschile e rauca dall'altra parte.

È Stefano.

Ieri sera, dopo essere stata in videochiamata con lui per oltre un'ora, mi ha promesso che mi avrebbe chiamata prima che io entrassi a scuola, per farmi iniziare al meglio la giornata.

Lui mi fa sempre quest'effetto: tutto è migliore se mi è vicino.

«Grazie, Ste'» dico, senza nemmeno salutarlo.

«Per cosa?» chiede. Subito dopo sbadiglia rumorosamente e capisco che si è appena svegliato.

Stefano ha la mia stessa età ed è un ragazzo intelligente e sveglio, ma con la scuola ha un rapporto di amore-odio. Eccelle in tutte le materie che gli piacciono, ma non si fa scrupoli a non degnare minimamente quelle che non gli sono di gradimento. Fortunatamente per lui quest'ultime sono ben poche e alla fine se la cava ogni anno con la media dell'otto, poco più bassa della mia che invece faccio il doppio della sua fatica per mantenere un livello più o meno alto in tutte le materie.

«Per esserci nonostante la distanza» ribatto, buttando un occhio sui pochi passeggeri seduti attorno a me.

«Lo sai che non devi ringraziarmi per questo. Ne abbiamo già parlato.»

È vero: lo abbiamo fatto. Abbiamo avuto questo tipo di conversazione almeno un centinaio di volte da quando stiamo insieme e sono sempre io a cominciare. Il punto è che a volte faccio fatica a credere che uno come lui – intelligente, di bell'aspetto e proveniente da una famiglia abbastanza abbiente, con due genitori che gli vogliono bene e lo hanno cresciuto non facendogli mancare nulla – possa stare con una come me. Insomma, i conti non quadrano...

«Adesso devo andare, Mara. Sono leggermente in ritardo» dice, mentre sento uno scroscio d'acqua che sembra essere quello del rubinetto di un lavandino che viene aperto.

Rido al suo "leggermente": sono quasi le otto e deve ancora prepararsi per andare a scuola.

«Sì, sì, va' pure. Ci sentiamo in giornata, no?» gli domando, mentre il bus accosta lungo il marciapiede e le porte si aprono. Prendo lo zaino e il cellulare e mi alzo.

«Certo! Ciao piccola.»

Riattacco e chiudo il cellulare con le cuffiette nella tasca dello zaino, scendendo dal bus.

Davanti a me noto subito un gruppo di ragazzi e ragazze che chiacchierano urlando e fumano la stessa sigaretta che si passano tra loro. Una coppia tra loro, un maschio e una femmina, prendono a spingersi con forza e la ragazza strilla due o tre volte fino a quando il ragazzo non la smette.

La scuola è dietro l'angolo, per cui passo accanto al gruppo a testa bassa, facendo finta di conoscere perfettamente la strada. La verità è che non sono poi così sicura di cosa aspettarmi.

E infatti, quello che mi ritrovo davanti non sono solo un'altra ventina di ragazzi, ma molto probabilmente oltre un centinaio.

Un centinaio di persone che a quest'ora dovrebbero essere già dentro. Perché sembrano essere così rilassati, seduti sui muretti a farsi gli affari loro in orario scolastico? Nella mia vecchia scuola, la campanella suonava alle otto meno dieci, perché alle otto due bidelle scorbutiche e insoddisfatte chiudevano i cancelli impedendoti di entrare, se non in seconda ora. Ma adesso sono le otto e tre e nessuno sembra essere minimamente intenzionato a muoversi ad avviarsi all'entrata.

La prima volta ti travolgeWhere stories live. Discover now