29 (parte 2)

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Jordan avvicina lentamente il suo viso al mio e io non mi tiro indietro. Non lo faccio, perché in questo momento mi fido ciecamente di lui. Non so perché senta di poterlo fare, ma mi piace questa sensazione di benessere che ti causa il poterti affidare completamente ad un'altra persona, il poter lasciare che faccia come voglia, perché tu ti fidi e basta, nient'altro da aggiungere.

Senza ascoltare il mio cervello, attendo che quello che deve accadere avvenga. Le nostre mani sono ancora intrecciate come se lo facessero da sempre, come se quello fosse il loro posto.

Sento il suo respiro farsi più corto e lascio che le mie labbra si schiudano, guidate da non so quale strana sensazione alla bocca dello stomaco.

Chiudo gli occhi, ma nei secondi a venire non succede assolutamente nulla. Niente di niente.

L'incommensurabile niente di cui parla il dizionario, e di cui troviamo ben pochi sinonimi, perché effettivamente questa parola è fin troppo concisa e specifica perché l'uomo pretenda una sua copia.

Niente, nulla, l'assoluta mancanza di qualcosa che non accade.

Jordan non si muove, le mie labbra si richiudono, i miei occhi si riaprono. Lui si è allontanato e io mi sento una completa idiota. Distolgo immediatamente lo sguardo, cercando di non far vedere il mio orgoglio ferito, la mia delusione per quel "nulla" che è successo, ma che non avrei voluto accadesse.

Possibile che ultimamente i ragazzi non facciano altro che umiliarmi? Possibile che io meriti solo questo? Cosa ho fatto di male, a quale buon Dio ho fatto un torto?

«Scusa, io...»

Oh no! Che non lo faccia, che non abbia il coraggio di fare quello che sta facendo. Non può scusarsi, né adesso né mai. È troppo umiliante. Il mio esser donna, il mio essere umana, tutta la mia persona non merita di perdere la sua dignità. Non tutta, almeno. Che me ne lasci un briciolo da parte con cui piangere in silenzio, in un angolino di questo mondo che ho deciso che no, non mi vuole bene.

Tiro via la mano e chiudo gli occhi, abbozzando un sorriso umiliato. Non ho neppure il coraggio di guardarlo negli occhi, ma devo provarci, devo rendere il tutto meno imbarazzante di quello che è.

«Jordan non...»

Non so che dire. Quali parole vanno dette in questi casi? Quali sono le più opportune? Io davvero non lo so, nessuno si è mai preoccupato di insegnarmele per un eventuale futuro.

«No, Mara, fammi spiegare» insiste lui, con tono supplichevole.

Cerco di sostenere il suo sguardo, ma è troppo. Lo sposto invece su mia madre che, per mia fortuna, ha riattaccato e adesso sta venendo verso di noi.

Il suo ignaro sorriso mi fa venire da piangere. Oppure da urlare. Non lo so, proprio non capisco come mi senta in questo momento. La vergogna mi porta a ricambiare il suo sorriso come se nulla fosse, come se io non provassi alcuna emozione in questo momento. Quanto vorrei fosse vero... ma posso illudermi! Posso fare finta che la mia dignità non sia poi scomparsa nel nulla, che posso recuperarla e andarmene da qui in maniera ancora dignitosa. Posso farcela, devo farcela.

Mi alzo, recuperando le buste nelle quali ci sono il mio vestito e quelle odiose scarpe con il tacco. Continuo a sorridere come un'imbecille, magari camuffo la vergogna che mi sta logorando dall'interno, la stessa che adesso deve darmi cinque o dieci minuti prima di prendere il totale controllo del mio corpo e delle mie azioni.

Dieci minuti per salire in auto, tornare a casa e chiudermi nella mia camera.

Dieci minuti prima di crollare alla disperazione più infima, quella che non crederesti mai di poter provare, la stessa che ti coglie di sorpresa e ti risucchia vivo.

La prima volta ti travolgeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora