1.1 • TIBUR SUPERBUM

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Era passata una settimana da quando avevo ricevuto la lettera e mia madre non si era ancora degnata di darmi uno straccio di spiegazione.

«Se davvero devo rimanere a Tivoli, perché stiamo facendo le valigie?» domandai, mentre lei, muta come una tomba, mi passava gli ultimi vestiti stirati da mettere nel borsone.

«Perché non potrai comunque tornare a casa finché il processo non sarà finito».

«E dove dovrei stare? Non voglio stare da sola».

«Non sarai sola».

«No?»

«No».

«E con la scuola come faccio?»

«Adesso chiudi la valigia e saluta Daniel. Dobbiamo andare».

Salutai Daniel con lo stato d'animo di un soldato in partenza per la guerra, poi seguii mia madre giù per le scale fino al garage e salii in macchina.

«Quindi?» le chiesi, quando fummo partite, riparandomi con una mano gli occhi dalla luce del sole basso del tramonto. «Dove stiamo andando?»

«Alla villa di Manlio Vopisco» rispose, a sorpresa.

«...dove?»

«La villa di Manlio Vopisco» ripetè, come se il nome dovesse dirmi qualcosa. «A Villa Gregoriana».

Impiegai qualche attimo per fare mente locale.

«Il rudere della villa del console romano?»

«Non è un rudere. È lì che ha sede il CST».

Mi lasciai cadere sullo schienale del sedile.  Doveva essere un sogno, oppure un incubo. Mia madre stava farneticando. E, intanto, guidava a tutta velocità verso Villa Gregoriana.

Villa Gregoriana era una delle tre ville di Tivoli, insieme a Villa d'Este e a Villa Adriana

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Villa Gregoriana era una delle tre ville di Tivoli, insieme a Villa d'Este e a Villa Adriana. A differenza di queste ultime due, però, a Villa Gregoriana, in realtà, la villa non c'era. Era piuttosto una specie di parco naturale. Ci ero stata in gita con la scuola l'anno precedente e me la ricordavo abbastanza bene: c'erano due ingressi e io e la mia classe eravamo entrati dal principale, sito su quella che un tempo era stata l'acropoli (ormai non lo era più visto che, nel corso dei secoli, la cittadina si era estesa ben più in alto, lungo la collina). Da lì eravamo scesi, attraverso la vegetazione selvaggia, lungo uno scapicollo di sentiero claustrofobico, scavato in parte nella montagna, fino a una radura ombrosa sul fondo della vallata da cui poi eravamo dovuti risalire. Ricordavo ancora l'odio con cui avevo affrontato, uno alla volta, tutti gli scalini stretti e ripidi scolpiti nella roccia fino all'uscita. Alcuni dei miei compagni (pochi) avevano risalito con entusiasmo la montagna, attraverso il bosco e le grotte naturali; la potenza del fiume che dalla villa precipitava con un salto di oltre cento metri andando a creare la Grande Cascata li aveva quasi esaltati. Io, invece, riuscivo a concentrarmi solo su quanto mi facessero male i piedi.

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