3.40 • IL SOGNO PIÙ BELLO CHE ABBIA MAI FATTO

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C'era qualcosa di strano.

Avevo lasciato il Colosseo nelle mani di Agenore, di cui mi fidavo ciecamente, ed ero saltata in groppa alla mia Viverna. Mi ero voltata a guardare indietro una sola volta. Era uno spettacolo che valeva la pena di essere ammirato. Agenore aveva condotto tutti in salvo, fuori dall'anfiteatro, e poi aveva sguinzagliato le Viverne. Ebbre di sete e ubriache di libertà, avevano sfidato la maestosità di quel luogo, simbolo indiscusso di forza e di rigenerazione ma anche di potere e di sopraffazione, spogliandolo di quel velo di sacralità e rivelandolo agli occhi mortali per quello che realmente era: un teschio dalle orbite nere e vuote, emblema di morte e di perdizione.

Mentre le Viverne lo davano alle fiamme, riuscivo a sentire ancora il suo ruggito interiore, quello dei Reazionari e di tutti coloro che, prima di loro, negli ultimi duemila anni, svuotati di ogni pietà, avevano incitato e battuto le mani ad ogni urlo di dolore, ogni schizzo di sangue, ogni morte ingiustificabile.

Una volta arrivata in una Tivoli deserta, avevo raggiunto in fretta l'acropoli, dove la Viverna si era acquattata per consentirmi di scendere. Il portale era stato aperto, proprio come avevo ordinato, ma i pietroni non c'erano. Strano.

Tutto appariva buio e immobile. Troppo. E non solo a causa delle tenebre che, come di consueto, in assenza del Fuoco, avviluppavano l'intera acropoli, con il bosco e ogni costruzione al suo interno. No. Aleggiava su di me un'atmosfera ancora più oscura.

Avanzai di un paio di passi all'interno della foresta e, quando mi voltai a guardarmi alle spalle, la Viverna era già sparita. Dov'era? Come era possibile che non l'avessi sentita spalancare le ali enormi e spiccare il volo? Allungai il passo. Dovevo raggiungere i templi più in fretta possibile. Forse, avevo aspettato anche troppo.

Molto strano.

Avevo camminato nel bosco a passo svelto eppure, nonostante fossi certa di averlo percorso nella direzione giusta, del piazzale con i templi non si vedeva ancora neanche l'ombra. Chiusi gli occhi e rimasi in ascolto.

Che silenzio.

La diga doveva essere stata chiusa, perché non sentivo la cascata. La cascata. Una strana sensazione mi pervase. Una malinconia placida ma profonda che, all'improvviso, aveva reso la notte ancora più tenebrosa.

«Ania».

Voltandomi di scatto, misi un piede in fallo e caddi a terra.

«Fa' attenzione» mi disse Rei, porgendomi la mano. «Ti sei fatta male?»

«No, no» risposi.

Afferrai la sua mano ma, anziché usarla come appiglio per alzarmi in piedi, la tirai verso di me finché Rei non mi fu addosso.

«Mi sei mancato» gli dissi, intrecciandogli le braccia intorno al collo. «Stai bene?»

«Sì. Mi sei mancata anche tu» rispose, stringendomi a lui. «Sei ferita?»

No. Cioè, forse lo ero. Mi faceva male una spalla, anche se non mi era sembrato di vedere sangue o ferite evidenti. Ma non era importante, in quel momento. Rei era di nuovo con me. Il fluire del tempo era rallentato fino a congelarsi al tocco appena sfiorato delle sue labbra contro le mie, il suo respiro lento e ritmico scandiva la notte, ricreando margini tangibili nel lungo e indefinito istante astratto in cui mi ero sentita sospesa in sua assenza. Non esisteva più alcun luogo in cui volessi andare. Non senza di lui.

«Ho avuto così tanta paura di perderti» rantolai.

«Ma ora sono qui» rispose, facendomi passare una mano sulla nuca. «Perché stai piangendo?»

SPQTWhere stories live. Discover now