3.16 • INCANTAMENTUM

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Il professor Ionascu, avvolto nel mantello nero, raggiunse me e Roze attraversando lo scheletro della balena al centro della sala comune del Vestibolo a lunghe falcate, serio e impettito come se stesse valutando la possibilità di avventarsi su di noi e picchiarci.

«Ho avvertito il tuo fetore prima ancora che varcassi la soglia» mi salutò. «Che cosa vuoi?»

«Grazie» risposi. «Possiamo parlare?»

Ionascu arricciò il naso, proseguì la sua camminata fino al finestrone senza vetri prima di voltarsi e lanciarmi un'occhiata furente.

«Non ho tempo da perdere» disse.

Dovevo fare uno sforzo. Lui era amico di Gilbert. L'unico, forse. O, per lo meno, io non ne conoscevo altri. Anche io avevo deciso di fidarmi di Roze, nonostante lei facesse parte dell'ordine dei Venatores, nemici giurati dei geni, e le avevo raccontato tutto. O meglio, quasi tutto: le avevo raccontato tutto escluso Enea. Forse anche Gilbert aveva fatto lo stesso con Ionascu. Forse, se davvero avessimo voluto abbattere quelle barriere di diffidenza e pregiudizio interrazziale, avremmo dovuto cominciare noi per primi a...

«Mi hai già stancato» abbaiò lui.

«Sì, scusi» dissi, tornando in me. Ormai ero lì. Tirarmi indietro non era più un'opzione. «Volevo parlarle di lui. Di Gilbert».

Rimase a fissarmi per qualche secondo senza mutare espressione, poi si rivolse a Roze.

«Aspetta fuori, Piwowarek».

Non avevo saputo da dove cominciare

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Non avevo saputo da dove cominciare. Le domande che avrei voluto fargli erano troppe. Inoltre, nonostante le rassicurazione della Clement, non riuscivo a non considerarlo un nemico. Così avevo bofonchiato e balbettato fino a spazientirlo e a indurlo a cacciarmi via. Poi però, prima di lasciare la sala, ero riuscita a voltarmi e, singhiozzando, a chiedere:

«Lei sa perché Gilbert ha chiesto alla Clement di maledirmi?»

Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non vederlo come un tradimento. Perché lo aveva fatto? Aveva chiesto alla Clement di indebolirmi. Come se non avesse già smanettato abbastanza con la mia mente, in precedenza.

«Sì» rispose, in un sibilo. «Lo so».

Feci un passo indietro. Non me lo aspettavo.

«Può... può dirmelo?» domandai.

«Sì, se la smetti di frignare. Non c'è cosa che detesti più della debolezza».

Ricacciai indietro le lacrime, tirai un paio di volte su con il naso e mi asciugai le guance con la manica della palla della divisa scolastica.

«Riguarda Rami Vanhanen» disse.

Lo sapevo. Sapevo che Gilbert c'entrava qualcosa con lui. L'avevo intuito quella notte, nella sua casa alla Setta, la prima volta in cui gliene avevo parlato, e ne avevo avuto conferma dopo la sua morte, quando, di punto in bianco, nessuno tranne me sembrava più ricordarsi dei gemelli Vanhanen.

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