EPILOGO

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Quando faceva così caldo, la piazza, di notte, era molto più affollata che non di giorno. Edera e Corinna stavano fumando una sigaretta sedute sulla panchina appena fuori dal ristorante, mentre io, Gaia e Sara eravamo in piedi davanti a loro, lanciate in una serratissima partita di chiacchiere.

«Mei?» sentimmo alle nostre spalle e io mi voltai, stupita, verso il possessore di quella voce sconosciuta.

«Sì?» domandai, osservando quel tizio tutto in tiro ma completamente anonimo che mi ero ritrovata davanti.

«Non ti ricordi? Stavamo a scuola insieme» disse, allentandosi il nodo della cravatta. «Sono Piras».

Piras? Non poteva essere. Lo scrutai attentamente. Corna di Bacco, aveva ragione. Era proprio Piras.

«Scusami» dissi. «Non ti avevo riconosciuto senza... rasta».

«Li ho tagliati all'università» rispose, passandosi una mano tra i capelli corti. «Mi sono laureato in economia e commercio. Lavoro in banca, adesso».

Le mie amiche erano rimaste immobili e in silenzio ma riuscivo lo stesso a percepire lo sguardo di disapprovazione di Edera, che si era laureata in lettere e faceva l'insegnante eppure aveva ancora i lobi dilatati, il piercing al setto e i capelli rosa.

«Tu, invece? Che lavoro fai?» chiese.

«Niente di entusiasmante» risposi. «Svolgo qualche lavoretto part-time, ma niente di continuativo».

«Non sei andata all'università, quindi» dedusse, con rammarico. «Io sì».

«No, non ci sono andata» confermai.

«Lui sì» mi sussurrò Gaia nell'orecchio. «Non so se lo hai capito».

La porta del ristorante cinese si spalancò di botto e la proprietaria ne fuoriuscì tenendo qualcosa in mano. Era un donnone che, più che in una cucina d'acciaio a vista, in mezzo ai cuochi minorenni, avrei immaginato a suo agio su un ring. Si aggirava tra i tavoli con il suo micro gilet di seta, l'aria conviviale e amichevole che ci aspetterebbe di trovare in un round all'ultimo sangue di jujitsu: gambe leggermente divaricate, braccia possenti larghe e semiflesse, sempre pronte per sferrare un colpo, quasi certamente letale.

Sollevava quel sacco della spazzatura come se fosse stato senza peso. Ma non era un sacco della spazzatura, però. Perché si stava dimenando furiosamente tra i suoi bicipiti poderosi.

Cazzo. No, non era un sacco della spazzatura. Era una bambina.

«Signora!» starnazzò, tirandomela praticamente addosso. «La tenga fuori dal mio ristorante e lontana dal mio acquario!»

«Mi scusi» dissi, mortificata, mentre le mie amiche indietreggiavano, temendo probabilmente e comprensibilmente per le loro vite. «Voleva solo vedere i pesci...»

«Non volevo vedere i pesci» mi contraddisse lei, poi si rivolse alla signora, puntandole contro un dito paffuto. «Il filtro del suo acquario è sottodimensionato. Sta lavorando al massimo! Se proprio non lo vuole sostituire, almeno sposti il bunocephalo».

Davanti a quell'affermazione incomprensibile calò il silenzio. La lottatrice girò il gilet e i bicipiti e tornò nel suo ristorante, lasciando tutti noi in un silenzio attonito.

«Lavori per questi cinesi?» domandò Piras.

«Sì» risposi, tra le occhiate imbarazzate delle mie amiche. «Faccio da babysitter a questa bambina orribile».

«Peccato» concluse. «Non eri neanche male a scuola. Se ti fossi laureata, forse, avresti potuto trovare un lavoro più dignitoso».

«Eh, va bene dai, è andata così» dissi, poi feci un passo verso di lui per battergli un colpetto sulla spalla. «Beh, è stato un piacere rivederti... addio».

SPQTWhere stories live. Discover now