1.3 • IL GENIO

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Mi svegliai in un posto che non riconobbi, con un dolore acuto al fianco destro, come se questo avesse impattato il pavimento gelido di pietra su cui, supponevo, ero precipitata. Non ricordavo da dove, però, né perché. Mi rimaneva solo una percezione di vuoto, di caduta libera, e un vaghissimo senso di nausea.

Mi mi misi a sedere, stordita.

«Yumi?» provai a chiamare.

«No, Yumi qui non può seguirci» mi disse un tizio, porgendomi una mano. «Ti sei fatta male?»

«No, non fa niente» mi affrettai a dire.

Ci misi qualche istante a ricordarmi chi fosse. Giusto. Il fratello di Yumi. Non mi ricordavo il nome.

Afferrai la sua mano e mi tirai in piedi e, quando la testa smise di girarmi, mi avvicinai alla finestra, una spaziosa bifora senza vetri, e guardai di sotto: ero ancora all'interno di Villa Gregoriana ma riuscivo a scorgere, attraverso una spessa coltre di nebbia, la biblioteca. Quindi dovevamo trovarci all'entrata opposta, sull'acropoli.

Il tenue bagliore lunare non riusciva a farsi largo nel buio e, non appena si udirono delle voci provenire da una stanza adiacente, un brivido violento mi percorse tutta la spina dorsale.

Il fratello di Yumi si avvicinò alla porta socchiusa, e mi invitò a fare lo stesso.

La stanza al di là della soglia era illuminata solo da candele; era completamente disadorna, escluso un massiccio tavolo rotondo intorno al quale sedevano undici uomini. Erano tutti vestiti di nero e ognuno di loro aveva al proprio fianco, poggiato sul pavimento o contro il tavolo, uno strano scudo di bronzo bilobato. Nessuno stava parlando, eppure sembravano tutti preoccupati. Uno di loro aveva poggiato la fronte sulle mani congiunte, un altro si rosicchiava nervosamente le pellicine.

Sobbalzai quando mi resi conto che, a spiare dentro la sala dietro quella porta, non eravamo soli. C'era, infatti, al nostro fianco, un bambinetto giapponese con i capelli neri tagliati a caschetto.

«Non spaventarti» mi disse il fratello di Yumi. «Lui non può vederti. E neanche gli uomini all'interno».

Spaventarmi? Avrei dovuto? Mi ero ritrovata in un posto che non conoscevo, senza sapere come ci fossi arrivata; c'era una stanza buia, degli uomini vestiti di nero che, stando alle ultime rivelazioni, non potevano vedermi e, al mio fianco, due personaggi da horror nipponico.

E non ero solo spaventata. Ero anche sconvolta. Perché, da una seconda porta situata dall'altro lato della stanza, era appena entrato mio padre.

Mio padre aveva sempre portato sia i capelli biondi che la barba un po' disordinati. Niente di esagerato, ovviamente. Solo quel tanto che bastava a conferirgli una ricercata aria da artista, da intellettuale. Da uomo troppo alternativo e impegnato per perdere tempo a pensare a inezie come la barba o i capelli, ecco. L'uomo che aveva appena varcato la soglia, però, aveva i capelli lunghi fin oltre le spalle e una barba talmente lunga e incolta da sembrare un ammasso di lanugine.

Mossi un passo verso di lui ma il fratello di Yumi mi precedette.

«Non può vederti né sentirti neanche Gabriel» mi disse.

Tornai a guardare mio padre che aveva appena poggiato a terra lo scudo e stava prendendo posto sull'unica sedia vuota della tavolata.

«Come è possibile?» domandai.

«Aspetta».

«Gabriel» disse uno dei tizi in nero, abbandonando di colpo la sua ingloriosa occupazione con le proprie cuticole. «Perché ci hai messo tanto?»

«Perdonatemi» rispose mio padre. «Ho dovuto portare in salvo mia moglie. È incinta».

Cosa? Incinta? Mia madre? In salvo da cosa, poi?

SPQTWhere stories live. Discover now