2.17 • CORVINA

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Quel ragazzo non era affatto mio fratello Daniel. Era troppo alto, dimostrava almeno venticinque anni e non era sordomuto, poiché stava borbottando alcune parole in rumeno.

Una donna magra, pallida, con dei sottili capelli scuri raccolti in una treccia scarmigliata, emerse dal buio dell'abitazione e lo affiancò sulla porta.

«Ania, per favore» sibilò Yumi, riprendendo a strattonarmi appena.

La donna sgranò gli occhi, si avvicinò di un passo, titubante, poi boccheggiò un attimo e disse:

«E...Elissa?»

Guardai nervosamente verso il sosia di Daniel che mi fissava a sua volta, leggermente accigliato.

«No» risposi, senza nessuna garanzia che mi capissero. «No, io mi chiamo...»

Ma non riuscii a finire la frase che uno scossone mi colpì alle spalle, sbalzandomi in avanti e sollevandomi quasi da terra.

«Ania!» sentii urlare Yumi, alle mie spalle.

Mossa da una forza incontrastabile, varcai di forza la soglia della porta urtando il ragazzo e la donna smunta. Qualcosa mi stava trascinando all'interno della casa. E, allo stesso tempo, mi stava quasi strozzando. La spessa catena del medaglione mi si era annodata intorno al collo e mi stava trainando in quell'abitazione buia e fatiscente. Fu questione di pochi metri e di una manciata di secondi, in cui riuscii a stento a capire cosa stesse succedendo.

Però percepii distintamente una sensazione: il medaglione mi aveva tradita.

Mi arrestai di colpo, con la testa che girava, un bruciante dolore intorno al collo e l'irrefrenabile desiderio di sfilarmi di dosso quel gioiello infido e di fuggire via a gambe levate. Ma poi tossicchiai un paio di volte e la vidi: la sagoma di una signora anziana, seduta su una vecchia sedia a dondolo, il fazzoletto legato in testa, che mi fissava con sguardo truce.

Quella signora era la madre di Gilbert. Ne ero certa. Non c'era bisogno di alcuna presentazione. I suoi occhi piccoli e neri, la testa grossa, il mento molto pronunciato. No, non avevo alcun dubbio. Il suo alone azzurro da solo rischiarava la stanza, completamente in ombra.

Anche se avevo frenato la mia corsa e la collana mi si era fortunatamente snodata dal collo, avvertivo ancora una leggera pressione, come se, in qualche modo, il medaglione tentasse ancora di andare da lei.

La vecchia si alzò in piedi di scatto e io feci un balzo indietro. Ma non potevo avere paura di lei. Era un genio come me. Non mi avrebbe mai fatto del male. Volevo sperare.

«Che sei venuta a fare?» domandò, con la voce roca e graffiante di chi non parla da tanto tempo.

Cosa ero andata a fare, effettivamente?

«Sono la discepola di...» arrancai.

«Non è quello che ti ho chiesto» mi interruppe. «Vattene. Vattene!»

Sì, certo. Giusto. Seguire il consiglio della nonna e andarsene sembrava proprio una buona idea.

«Bene, alla prossima» dissi, prima di voltarmi e correre via.

Mi scocciava ammetterlo, ma la vecchia mi aveva spaventata a morte. Ma, ancora di più, mi aveva spaventata il comportamento del medaglione. Fino a quel momento era stato il mio conforto, il mio appiglio, qualcosa a cui avrei affidato la mia vita. Perché mi aveva tradita in quel modo?

Raggiunsi Yumi fuori dalla porta, la afferrai per il braccio e insieme scappammo via, ripercorrendo a fatica i nostri stessi passi in mezzo alla neve alta.

«No, aspettate!» urlò la donna magra.

Ma io non avevo nessuna intenzione di fermarmi. Non volevo trovarmi di nuovo faccia a faccia con quella vecchia. Vedevo il cancello avvicinarsi come un miraggio. Non avrei saputo spiegare il perché, ma ero certa che, se fossimo riusciti a oltrepassarlo, non ci avrebbero seguiti al di fuori della loro proprietà.

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