3.23 • URLA CHE INVOCANO VENDETTA

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«Basta con i sentimentalismi» aveva concluso mia madre, dopo quella estenuante conversazione. «Ora io posso tornare a essere la madre stronza e tu puoi continuare a odiarmi, va bene?»

Ma io non la odiavo. Anzi, vrei dovuto provare pena per lei, probabilmente. E l'avrei provata se la sete non avesse spazzato via l'ombra di qualsiasi altro sentimento potesse albergare dentro di me. Sete che tentavo di reprimere aggrappandomi all'unico barlume di speranza che quella dolorosa conversazione aveva riacceso in me: Mario e la Di Pietro, alla fine, forse, erano sempre stati dalla parte dei geni. E questo mi rincuorava perché significava che non avrei dovuto schierarmi contro di loro. E non solo. Mi rassicurava anche perché nutrivo per la professoressa una tale, cieca fiducia da arrivare a pensare che, se anche lei si era prodigata per quella causa, allora doveva senz'altro essere giusta.

Ho deciso molti anni fa da che parte stare, mi aveva detto la Di Pietro, una volta. E io non avevo capito niente.

Eppure, nonostante la consapevolezza dell'appoggio della professoressa mi facesse sentire, in qualche modo, sollevata e nel giusto, una serie di pensieri nefasti continuavano ad affollare la mia mente. Due, in particolare, erano le immagini che si susseguivano senza sosta davanti ai miei occhi. La prima, confusa ed evanescente, era null'altro che la proiezione che la mia immaginazione aveva costruito sulla base delle poche, vaghe e frammentarie informazioni ricevute riguardo ciò che i Reazionari facevano ai geni rastrellati e venduti loro dall'Impero. La seconda, più nitida e dolorosa, bruciante come sale su una ferita aperta, era quella della piccola Tecla avvolta nella sua copertina rosa strappata dalle braccia di mia madre. Era troppo piccola per capire. Non ha avuto paura. Non si è resa conto di niente. No. Non funzionava. Tecla forse era un genio, forse era un'Umana, non lo avevo chiesto a mia madre e non lo avrei fatto. Non era importante. Tecla era una bambina piccola e innocente.

Sento ancora le sue urla, aveva detto mia madre. Le sentivo anche io. Ed erano urla che invocavano vendetta.

«Che te ne pare?» domandò Kirk, comparendo al mio fianco.

«Cosa?» domandai, sussultando.

«Il Palazzo Imperiale» precisò, guardandosi intorno. «I geni non sono mai stati abituati a tanto sfarzo. Guardarli, sono rimasti tutti a bocca aperta».

Era vero. Lasciando i prigionieri sotto il controllo di una manciata di soldati, avevamo raccolto armi e bagagli e raggiunto il Palazzo Imperiale sul calar della sera, insieme a tutti i geni civili del sotterraneo che, raggiunta la regale residenza, si stavano guardando intorno ammirati e intimiditi. Molti di loro, probabilmente, non avevano neanche mai visto la luce del sole.

«B-bellissimo» disse Agenore. «Q-quasi troppo».

«Decisamente troppo» concordò Kirk.

Dal cortile delle biblioteche di Villa Adriana si accedeva al Palazzo, circondato da un alto muro di cinta edificato su un livello più altro, tramite un'imponente scala in muratura. L'edificio si articolava in più settori, in un' alternanza di costruzioni, cortili e giardini circondati da colonne e pilastri.

Orientarsi in un ambiente tanto grande e magnifico non sarebbe stato semplicissimo nonostante il complesso ricalcasse lo schema tipico delle costruzioni romane. Un atrio, un grande ambiente quadrato parzialmente coperto da un tetto a falde inclinate verso l'interno e sostenute da colonne angolari, grandi giardini lungo il muro orientale. C'erano una sala divisa in tre navate con abside chiamata Triclinio dei Centauri con pavimento a mosaico, un cortile centrale con accesso all'esedra, una stanza a forma di semicerchio delimitata da una fila di colonne, e un triclinio estivo semicircolare con soffitto a volta con nicchie strapiene di statue e fontane, in cui sofisticati giochi d'acqua formati da cascatelle dalle quali l'acqua zampillava in un canale circondante l'intera zona dedicata ai pasti e alla conversazione all'estremità occidentale del palazzo.

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