3.27 • L'OMBRA DI ALASTOR

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La notte era buia e immobile. Un fioco e gelido raggio di luna proiettava sul terreno dissestato un complicato mosaico di ombre confuse e deformate.

«Come è mai possibile che ci sia ancora qualcosa di vivo, qui?» domandai sottovoce a Kirk, mentre costeggiavamo i resti della necropoli arcaica del foro, camminando in silenzio.

«I Magi Reazionari hanno le ceneri di Oreste» mi rispose lui, infilandosi la mani in tasca, «sono stati in grado di creare una nebbia più fitta».

«E di decidere chi può essere snebbiato e chi no» aggiunsi, guardandomi intorno. Tutto sembrava deserto e abbandonato. Pareva impossibile che in quello stesso sito si nascondesse il quartiere generale dei Reazionari.

«Evidentemente sì» rispose. «Ma a questo penseremo in un secondo momento. Adesso rimani concentrata sulla missione di questa sera. Perché non è detto che sia facile e neanche piacevole».

No, facile non lo sarebbe stato di sicuro. Anche perché, come dire... ci mancava un pezzo. Eravamo partiti dal Palazzo Imperiale di Villa Adriana, sgattaiolandone fuori come dei ladri, insieme ad Agenore, Daniel, la Clement e Rami ed Heikki. Destinazione: Lapis Niger.

Qualunque piano di attacco Kirk avesse ideato sarebbe stato e sarebbe rimasto vincolato a quella ingombrante clausola: il recupero della collana di Cibele. Non esisteva altro modo per pensare di poter sferrare un attacco, attingendo unicamente dal numen degli Umani presenti, schermati da chissà quali e quanti incantamenta. E, se un genio qualsiasi tra noi avesse provato ad attaccare in assenza di numen, avrebbe fatto la fine di Jurgen. Né avevo mai pensato che Kirk potesse anche solo ipotizzare di sferrare un attacco di quella portata servendosi delle sole zanne, l'unica nostra variabile offensiva completamente svincolata dal numen e, quindi, dall'influenza umana. No, era ovvio che, prima di qualsiasi altra mossa, Kirk avesse intenzione di recuperare il Lapis Niger.

Non mi era chiarissimo come pensasse di fare ma, tutto sommato, gli ingredienti per sperare in una buona riuscita del piano c'erano tutti: c'era Daniel che era senza ombra di dubbio l'erede di Enea, c'ero io che ero sua nipote, Kirk che era stato il suo discepolo. C'erano la Clement, un potente Velatore e Agenore, un esperto domatore di lemuri. E poi c'erano due terzi di Enea. Insomma, rispetto alle volte precedenti in cui, senza speranza alcuna, ci eravamo lanciati in quella medesima disperata impresa, avevamo fatto un bel passo avanti. Ci mancava solo un terzo di Alastor, stavolta.

Ci lasciammo alle spalle i resti del tempio dei Dioscuri, nei pressi del quale Gilbert, meno di un anno prima, aveva esalato il suo ultimo respiro tra le mie braccia. Distolsi immediatamente lo sguardo. Non era il momento.

«Fermiamoci un attimo qui» disse Kirk, davanti al pavimento lastricato nero del Lapis Niger.

«Perché?» domandai.

Se era vero che i Reazionari, in qualche modo, erano stanziati al Foro, non mi andava per niente di stare lì ferma ad aspettare che ci attaccassero.

«Manca ancora un invitato a questa festa» disse, sogghignando, con un per niente velato riferimento alla mia battuta dell'anno precedente, quando li avevo beccati a profanare quel luogo durante il funerale della finta Dafni.

Con mio inquantificabile stupore, dopo solo qualche attimo di attesa, una figura bianca e fluttuante emerse lentamente dalla tenebre.

«Maia?» domandai, sconvolta.

«Kirk ha chiesto a Heikki di attirarla qui» mi chiese Rami. «Credevi davvero che lui non sapesse dov'era?»

Certo, giusto. Loro due erano telepatici. Ma il fatto che lei ci avesse raggiunto in quattro e quattr'otto poteva significare solo una cosa.

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