2.13 • UN LAVORO DI FINO

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«Che è successo stanotte?» gesticolò Daniel, a colazione, la mattina seguente.

Mi fermai un attimo a guardarlo, mentre imburrava una fetta di pane. Era cresciuto parecchio in altezza. Non sarebbe diventato un uomo alto, probabilmente, ma iniziava ad assumere le sembianze di un adolescente. Forse non era giusto continuare a tenerlo all'oscuro di tutto. Magari avrei potuto trovare in lui un alleato. Temevo però che mio fratello, vissuto da sempre sotto la campana di vetro posta sulla sua testa da nostra madre il giorno stesso in cui era nato, non fosse pronto a qual genere di brutture. Maledizioni, pene capitali. Guerre. Non ancora.

«Niente, non ti preoccupare» dissi, infine.

«Ma non vai a scuola, oggi?» mi domandò, poiché non avevo indossato l'uniforme.

«No, oggi no» gli risposi. «Ho da fare una cosa importante con mamma».

Mentre mia madre muoveva le mani sulla testa di Devon con aria preoccupata, sperai con tutta me stessa che riuscisse non solo a guarirlo, ma anche a dirci chi era stato a maledirlo

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Mentre mia madre muoveva le mani sulla testa di Devon con aria preoccupata, sperai con tutta me stessa che riuscisse non solo a guarirlo, ma anche a dirci chi era stato a maledirlo.

Gilbert, che era stato sincero con me forse per la prima volta e che aveva ospitato Devon per la notte, sembrava quasi annoiato. Era come se le luci dell'alba, insieme alle tenebre che lo avevano messo tanto a suo agio da indurlo a condividere con me i suoi pensieri, avessero spazzato via anche il suo interesse per tutta la faccenda.

«Non ho mai visto una cosa del genere» disse mia madre, infine, voltandosi verso di noi, che eravamo rimasti in piedi sulla porta del salotto.

«Non puoi fare niente?» domandai, in ansia.

«È sicuramente vittima di una maledizione» mi rispose. «Ma non riesco a leggerla».

«Come è possibile?» chiesi.

«Non lo so. È stata schermata» disse lei, alzandosi in piedi e guardando Gilbert. «Un lavoro di fino, davvero».

«Che non ho certo fatto io» disse lui. «Risparmiati la fatica di insinuarlo».

«Devo quindi dedurre che ci sia in giro un genio più potente di te».

«Più di uno, probabilmente».

«Mamma» intervenni, perché i loro battibecchi mi esasperavano. «Devon rischia di morire?»

«Senza conoscere la natura della maledizione che lo affligge, non so dirtelo» rispose, continuando a guardare Gilbert. «Certo è che non sembra passarsela bene».

L'idea mi arrivò violenta come una folgorazione.

«È stata la Clement» dissi.

«Chi?» chiese mia madre.

«La mia professoressa di Chiara Visione» risposi poi mi voltai, impaziente, verso Gilbert. «È un Velatore, vero? Sarebbe capace di schermare una maledizione, non è così?»

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