Per tutta la sera si susseguono giornalisti che non lasciano tregua al direttore, ponendo domande su domande.
Ad un certo punto, però, sento gli occhi puntati su di me, ed il direttore farmi cenno con la mano di raggiungerlo.
Mi accingo al gruppo riunitosi al centro della sala, il direttore mi avvolge le spalle con il suo braccio, ed annuncia <<Ma è solo grazie a lei, se oggi, potete vedere questa collezione in tutto il suo splendore. Signore e Signori Delilah Winfrey>>.
Arrossisco imbarazzata, mentre si levano applausi in tutto il salone. Non amo essere al centro dell'attenzione, men che meno quando l'attenzione che ricevo è da parte di snob, i quali, sembra ti critichino ad ogni occhiata.
<<Grazie, ringrazio tutti infinitamente. Quello che ho potuto fare è solo frutto di un arduo lavoro, iniziato all'università, ma che non avrebbe avuto modo di realizzarsi se non grazie al direttore Kowalskii>> ammetto mentre sorrido nella sua direzione.
Il direttore mi guarda soddisfatto, mentre applaude a sua volta, unendosi agli altri.
Dopo questo annuncio i giornalisti hanno deciso di pormi alcune domande dalle quali far nascere un'intervista che all'indomani avrei trovato su tutte le testate giornalistiche principali.
Alla fine dei quesiti sentivo la testa girare. Mi dirigo verso la zona allestita a bar, per bere un drink e cercare di riprendermi.
<<Un Bloody Mary grazie>> chiedo al barista mentre appoggio una mano sul bancone su cui fare perno per alzarmi, e sedermi sullo sgabello.
<<Arriva subito>> risponde facendo roteare una bottiglia di Vodka.
Apro la pochette e prendo il cellulare. Voglio controllare se ci sono nuovi messaggi, ma nulla. Lo appoggio sulla superficie in noce scuro, a testa in giù, sbuffando mentre sorreggo la testa sulle mani.
È così deprimente.
Ho ventiquattro anni, una laurea in storia dell'arte, e un lavoro che molti sognerebbero.
Eppure sono sola. I miei amici hanno preso le loro strade, e si stanno godendo i loro "ruggenti anni 20".
Ed io? Io continuo a camminare sulla linea di progressione che mi sono imposta da quando ho più o meno dieci anni.
Una laurea, l'indipendenza, su tutti i fronti, e un lavoro stabile.
Poi sarebbe stato il momento di un ragazzo, qualcuno di dolce, di comprensivo, altruista, e un mio pieno sostenitore, il mio fan numero uno insomma. Ci saremmo sposati e avremmo avuto dei figli. Due, per essere precisi, un maschio e una femmina, e avremmo vissuto felici e contenti in un cottage di campagna, circondati da tantissimi animali.
Ma questi erano i pensieri di una bambina di dieci anni, scritti su un diario segreto sotto le lenzuola, con una torcia stretta tra i denti, per paura che chiunque potesse leggerli.
Per ora ho realizzato ciò che era in mio pieno controllo, e cioè la mia realizzazione personale.
Non avevo tenuto in conto di quanto fosse necessario, in tutto questo, non sentirsi soli. Avere un sistema di supporto, qualcosa che andava oltre la cerchia familiare. Degli amici, l'amore, e possibilmente quello della tua vita.

Quando mi risveglio dal mio stato di trance dettato dai miei pensieri piuttosto negativi, noto che gli invitati stanno già andando via.
Perfetto, ora non solo ero senza amici e senza un ragazzo, ma anche invisibile.
Mi alzo dallo sgabello e scendo, cercando di trattenere uno sbadiglio, mentre provo a tenermi in piedi su quei tacchi che improvvisamente sembravano più alti di quello che ricordavo.
Le luci vengono spente, e tutto ciò che rimane sono quelle di emergenza ad indicarmi la via d'uscita.
Mi dirigo verso le porte d'uscita e ancora una volta mi ritrovo Bob, nella stessa identica posizione della mia prima sera qui al museo.
Mi avvicino ai monitor, e mi sporgo per sfiorare il suo braccio, affinché possa farmi uscire. Non avendo nemmeno con me il badge, sarebbe impossibile altrimenti.
Si sveglia di soprassalto <<Scusami!>> sussulto <<Non era mia intenzione!>>
<<Ancora tu ragazzina?>> chiede.
<<Davvero scusami, io ho...>> balbetto <<ho solo dimenticato il badge e non saprei come uscire>> concludo.
<<Rilassati>> ride, quasi sobbalzando sulla sedia <<Stavo scherzando! Avevo visto che ti eri persa nei pensieri, sembravano importanti, a tal punto da non farti percepire le persone che se ne stavano andando, e nemmeno il barista che ti ha informata del fatto che tutti quanti stavano uscendo. Eri davvero persa. Non sembrava il caso di importunarti>> confessa.
<<Oh davvero>> pigolo <<Erano pensieri davvero inutili rispetto alla fame nel mondo, o alle guerre che stanno accadendo in varie parti del globo>> faccio con fare teatrale, mentre agito una mano in aria, come a voler scacciare qualunque pensiero che potrebbe intrufolarsi di nuovo nella mia testa.
<<D'accordo>> sospira mettendosi seduto sulla sedia in maniera composta <<In ogni caso io sono sempre qui, un po' come in Una Notte Al Museo, perciò, se hai bisogno, basta fare un fischio>> dice incrociando gli avambracci sulla scrivania, sporgendosi come se volesse osservarmi meglio.
<<Grazie davvero!>> non so cos'altro dire se non un grazie sincero. A stenti mi commuovo della bontà di quest'uomo.
<<Ma ora immagino sia il momento di andare a casa giusto?>> chiede.
<<Direi di sì>> sospiro sorridendo.
Lui preme il pulsante, e digita qualcosa sulla tastiera prima di disattivare per pochi secondi l'allarme e consentirmi di uscire.
Lo ringrazio con un sorriso e un cenno della mano, lui fa altrettanto, e come il primo giorno, esco avvolta nell'aria gelida inglese. Forse un po' troppo gelida. Mi osservo e qualcosa manca.
Il mio cappotto!
Busso alla vetrata ma Bob non si vede.
Cerco un modo per poter rientrare prima di prendermi una broncopolmonite. Giro nel vicolo adiacente all'ingresso, proprio di fronte a dove è parcheggiata la mia auto.
Sto tremando, così incrocio le braccia al petto, e con le mani mi sfrego la pelle energicamente, cercando di darmi calore.
Avanzo di poco, e mi fermo. Il mio istinto dice di farlo. E so che dovrei seguirlo, eppure delle voci attirano la mia curiosità. Faccio un passo avanti ancora, rimanendo attaccata alla parete.
Il direttore Kowalskii?
E dinanzi a lui, lo stesso uomo con i tatuaggi sul collo di qualche sera fa, lo stesso che parlava con il direttore.
Sul lato opposto del vicolo, in fondo, due luci, o meglio due scie di luci che provengono da i fari di un camion, molto grande, sul quale vengono caricate delle casse di legno molto pesanti.
Ci sono uomini che urlano in spagnolo <<Vamos, vamos!>> e un altro che intima di abbassare la voce.
Torno a volgere lo sguardo sul direttore il quale si incammina verso il camion con l'uomo tatuato.
Lì vicino, è parcheggiata una monovolume nera. Salgono a bordo, il direttore guida.
Partono per primi, e il camion li segue.
È troppo sospetto, e la mia curiosità prevale sull'istinto che mi urla di salire in macchina ed andarmene a casa.
Salgo in macchina, sì, ma non guido verso casa. Decido di pedinare il camion.

Dopo un viaggio lungo circa mezz'ora, ed il riscaldamento al massimo, giungo in una zona di campagna, completamente distaccata dalla città.
Mi fermo a qualche miglia di distanza dal camion.
Spengo i fari della mia auto come nei migliori film di spionaggio, e attendo li.
Fortunatamente nella mia macchina ho un giubbotto di scorta, così lo indosso per evitare di ammalarmi.
Nel piazzale di fronte noto il direttore scendere e stringere la mano all'uomo con la giacca di pelle.
Il direttore sale di nuovo in macchina e se ne va. Il rischio che potrebbe riconoscermi è alto, così mi nascondo, sdraiandomi sul sedile del passeggero.
Appena sento allontanarsi, il rumore degli pneumatici sul pietrisco, mi rialzo.
Ormai i fari rossi della monovolume si stanno dissolvendo nel buio.
Torno a concentrarmi sul piazzale, al quale sopraggiungono un'altra ventina di uomini. Iniziano a svuotare il camion, scaricando le casse di legno. Quelle casse. Quelle casse io le avevo già viste!
Non potevo fermarmi lì. Avevo bisogno di proseguire.
Scendo dall'auto, e mi incammino furtiva verso il capanno, dal quale proviene una luce incandescente e del fumo, come se fossero stati accesi tanti falò.
Una volta sopraggiunta cerco di trovare uno spiraglio da cui sbirciare.
In una parete laterale, trovo una finestra, con i vetri consumati, alla quale mi affaccio per osservarne l'interno.
Ci sono macchinari strani, mai visti prima. Gli uomini indossano guanti come quelli che indossano i vigili del fuoco e sono molto sudati.
Le casse sono state deposte su un lato del capanno.
L'uomo che avevo visto parlare con il direttore fa il suo ingresso. Tutti si fermano.
<<Muy bien gente, escúchenme, por favor>> dice con fare autoritario, battendo una spranga di ferro su una delle colonne portanti del capannone, anch'essa in acciaio.
<<El director del museo exige que todo se haga esta noche>> continua.
Non sono molto brava con il mio spagnolo, ma penso di averlo appena rispolverato, avendo compreso che tutto ciò che sta per accadere non porta a nulla di buono.
<<¡Asì que vamos, vamos!>> li incita.
Tutti si uniscono in un coro di gruppo, quasi come quelli che si fanno sui campi da rugby.
Aprono le casse con dei piedi di porco.
L'uomo tatuato sale in cima alla pila di scatole come se fosse una montagna, sulla cui vetta piantare la bandiera, forza il coperchio di quella più in alto, e lo scaraventa a terra.
Con il braccio ne cerca il contenuto e lo solleva in aria come una coppa.
Sussulto <<Il calice!>>
Subito sento una mano che mi copre la bocca ed un corpo muscoloso e solido alle mie spalle che mi porta a terra con lui.
Il profumo di sandalo e spezie, così forte e deciso che inonda le mie narici mi ricorda vagamente qualcuno, e quando volto lo sguardo, con la bocca ancora tappata, ho la mia conferma.

GOLDENWhere stories live. Discover now