Capitolo 3

462 82 93
                                    

Oggi, dopo tanto tempo, sono riuscito finalmente a tornare nella piazza centrale della mia tanto amata quanto odiata Berlino.

Sono uscito dal "rifugio" piuttosto presto direi, senza neanche aver fatto colazione, ma d'altronde non è una situazione nuova, dato che ho passato giorni a correre senza sosta e ad accontentarmi di poche e scarse provviste raccattate qua e là: posso dunque dire di non patire i morsi della fame.

Mi sono diretto verso Alexander Platz, cuore della capitale nonché base di carri armati e "marionette tedesche" (mi piace chiamare così i soldati alla mercè di quel Tedesco insano e dispotico).

Sfortunatamente, prima che potessi sgattaiolare via un nazista mi si è parato davanti, chiedendomi le generalità. Nonostante l'apparente semplicità delle domande mi sono sentito sotto pressione, e, come a mio solito, ho iniziato a balbettare in modo sconnesso e confuso.

«Nome?»

«Daniel Schwarznegger.»

Penso di non avere mai inventato tante identità nel corso della mia breve e misera vita.

«Età?»

«Diciassette.»

«Paese di provenienza?»

«Germania.»

«Cosa fai qui, a quest'ora del mattino?»

«Ecco, stavo... cercando del pane, sì, del pane...»

I ricordi della mattina appena trascorsa si fanno strada pungentemente.

Sono sempre stato abituato a giudizi e arroganza, ma l'espressione sospettosa e il sorriso tagliente del nazista mi hanno seriamente messo soggezione.

«Bene, allora muoviti e togliti dai piedi. E mangia qualcosa, la razza ariana è fatta di uomini, non di cumuli sporchi di polvere.»

Alla sua affermazione ho sentito il sangue ribollirmi nelle vene, ma sono stato costretto ad abbassare il capo e annuire con poca convinzione.

Alla mia esitazione è seguito il ripetitivo "Heil Hitler" pronunciato dalla marionetta senza anima. Aspettandosi una mia risposta mi ha guardato dall'alto in basso, con il suo rigoroso taglio a spazzola e la puzza di tabacco che impregna il loro "vestito per le bambole", identico e spiccicato in tutte le edizioni.

Fremevo dal desiderio di dirgli che il suo tanto amato Hitler, per me, è come una corona sopra al trono, senza un cervello che possa elaborare dei concetti e un corpo che sia in grado di reagire sapientemente.

Ho sussurrato quelle parole, anche se nella mia testa sono risuonate come un urlo di lamento e disperazione, ma chiaramente la marionetta doveva umiliarmi ulteriormente, così da costringermi a ripetere la frase.

E ora sono nella mia stanza, dopo essermi sorbito la ramanzina di Alexander per essermi addentrato nella "giungla di soldati" incautamente, a mio rischio e pericolo: gli sono grato per l'ospitalità, ma ciò non toglie che la mia indipendenza è sacrosanta, e posso muovermi liberamente, quando e dove voglio.

Adesso dormo nel "rifugio" con tutti gli altri.

L'edificio, a dispetto della prima impressione, è grande, spazioso e confortevole.

Inoltre, ci sono tante stanze, divise per maschi e femmine.

Io dormo solo con Zehava, nonostante prima con noi ci fosse anche Shimon il quale, con mio grande sollievo, è andato a dormire con i più grandi.

Prima non riuscivo a capire il motivo di tanta ostilità, ma successivamente Zen mi ha spiegato per sommi capi la sua posizione: nella stessa rimessa in cui mi ha trovato beatamente seminudo è morto suo fratello, un ragazzino di a malapena quattro anni che, dopo essere incappato incautamente in una mina vagante, è morto per un'emorragia.

Mi chiedo come stiano i miei fratellini, mi mancano tanto.

Mentre Zen legge un libro su un ragazzino proveniente da qualche strano pianeta dalle dimensioni piuttosto ridotte, io prendo qualche foglio dallo studio di Alexander e inizio a scrivere una lettera, una lettera con tanto di mittente e destinatario, ma senza un effettivo lettore.

Cara mamma, qui di seguito ti illustro gli avvenimenti  degli ultimi giorni.

Dopo una lunga ed estenuante fuga mi sono nascosto nel bosco e sono stato ospitato da un signore anziano dall'aria saggia e il cuore torturato dagli avvenimenti. Ti dico solo che, dopo aver appreso la morte del figlio, è stato costretto a seppellire il suo povero cagnolino nel giardino di casa. Qui sembra di stare in un orfanotrofio, ma so che la mia condizione è diversa rispetto a quella degli altri, che io non sono un trovatello, che a casa ho una famiglia che mi aspetta, ma... non prendiamoci in giro, a volte metto in dubbio l'esistenza e la salvezza dei miei cari, il loro benessere, la loro felicità. Quanto alle mie ricerche, ancora non hanno dato il risultato sperato. Questa mattina sono andato in città, e sapessi quanta tristezza mi ha fatto! Quelle stesse strade per le quali papà vendeva le sue creazioni sono spoglie, spente, segnate da una realtà più stretta e lacerata di quelle mura stesse. Mi blocco prima che possa diventare troppo melodrammatico! Spero che a casa vada veramente tutto bene, e che ci rivedre...

Mi interrompo prima di poter concludere la mia lettera.

Ma chi voglio prendere in giro? Sono un semplice ragazzo solo, senza certezze a cui aggrapparsi, senza fiato in gola, senza artigli per difendersi, senza coraggio nel cuore.

Scrivo per me, per autoconvincermi della loro salute, per passare il tempo in un edificio occupato dal silenzio pungente, per distrarmi, per immedesimarmi nella parte.

Quasi mi sento come una di quelle marionette che si adattano ai tempi che corrono e si prostrano ai piedi del dolore e della morte.

Concludo la lettera e mi metto a letto.

«Cosa leggi?» chiedo a Zehava con finta ignoranza.

«Non lo so, i miei occhi leggono, ma la mia mente è altrove» mi risponde con aria assente.

«E dove? Se non sono troppo indiscreto, ovviamente.»

«Ai vecchi tempi, ai momenti in cui la musica era fatta di dischi e canzoni, e non di sirene anti bombardamento e grida di dolore.»

Quanto hai ragione Zen, quanto... Peccato solo che le marionette non se ne accorgano, ma continuino a recitare la loro parte...

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now