Capitolo 27

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Settimana della memoria
Libro del giorno: Il farmacista del ghetto di Cracovia

Durante la mia fuga non mi sono voltato mai, neanche per una sola, effimera volta.

Ho pensato che la vista di quella casa ridotta in macerie e i ricordi che con essa sono andati perduti avrebbero reso, se possibile, ancora più struggente l'allontanamento, pertanto ho continuato a camminare nel bosco, in quello stesso bosco dove tutto è iniziato e tutto è finito.

Poi, mentre continuavo a correre, mi sono reso conto di un fatto che mi ha sconcertato: ci porteremo per sempre dietro ciò che c'è stato e chi siamo stati.

Ho tentato di alleviare la mia pena volgendo lo sguardo al paesaggio innevato che si stagliava dinanzi ai miei occhi, alle foglie degli alberi sul terreno, al cielo che oggi è sorprendentemente limpido e agli uccelli che sono tornati a cinguettare con il loro modo civettuolo, ma i ricordi, specie quelli più duri, non mi hanno mai abbandonato: essi si sono insediati negli strati più spessi del mio corpo, dove le cellule continuano a morire e a ricomporsi allo stato originale, in quei punti nevralgici dove il tremolìo e il senso di nausea mi attanagliano lo stomaco.

Ho riempito i miei occhi di immagini, ma nulla, e dico nulla, potrà mai colmare questo vuoto che sento all'altezza del petto.

Come posso camminare se penso che fino a poche settimane fa ho percorso queste stesse strade con Zen, Aaron e Shimon?

Come posso guardare questo manto di neve senza pensare al corpo innocente di Orly che, con uno sguardo sereno e distratto, giaceva sul terreno, tingendolo di gamme rosso scarlatto?

Come posso guardare queste cavità provocate dall'esplosione di una mina senza pensare ad uno Uri meno esperto e più impulsivo e previdente che si nascondeva da un signore di nome Alexander con il suo corpo gracile?

Ma soprattutto, come posso compiere un qualsiasi movimento senza riflettere sul fatto che fino a pochi giorni fa c'era chi mi guardava le spalle e mi dava la forza necessaria ad andare avanti?

Come posso guardarmi intorno sapendo che non ho un posto dove tornare?

In un impeto di pazzia, sono addirittura arrivato a prendere in considerazione l'ipotesi che, dopo questo momento sabbatico e di riflessione, sia giunto il tempo di tornare a casa.

Poi, ho semplicemente ragionato.

Ho pensato al lasciapassare che mi è stato sottratto, alla fortuna che ho avuto essendo riuscito ad uscire da quel recinto circondato da filo spinato.

Sono egoista, viziato ed egocentrico; sono un ragazzo che, dopo aver addentato una fetta di felicità, non vuole tornare alla confusione e al dolore che dilania la gente del ghetto.

Tutti noi ci siamo scordati di cosa fosse la gioia, di cosa significasse vivere in un edificio stabile, respirando l'odore dell'apparente libertà, dormendo in un letto con lenzuola di lino candide e mangiando in abbondanza nonostante le risorse limitate.

Nel ghetto, ogni giorno assistiamo a scene atroci: violenze, abusi, percosse, morte, inganni.

Veniamo privati di ciò che rende l'uomo tale, del cibo, del diritto all'istruzione, del senso di uguaglianza, della pulizia, dell'igiene personale e della sanità.

Sono un ebreo privilegiato che è attaccato alle proprie origini, ma confido nel fatto che Dio, se veramente è misericordioso, darà a ogni ebreo come me la possibilità di uscire dalla gabbia.

Io, nel mio piccolo, pur non ricongiungendomi con loro non avrò vita facile: non avrò, a differenza loro, un tetto sopra la testa, una, pur se minima, razione di cibo, un compagno e un amico.

Mi accorgo della gravità della mia situazione.

Sono esposto alle mine tedesche.

Prendetemi. Accorciate questo supplizio. Non la voglio questa vita.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now