Capitolo 12

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Suppongo che trovare Alexander sarà una delle imprese più ardue che mi sia mai trovato ad affrontare.

Non appena siamo entrati nella Krankenhäus, il dottore responsabile ci ha chiesto il nome del paziente, mentre alcuni soldati, dopo il rapido ricovero, giravano per l'intero edificio per vedere in che condizioni si trovassero i loro amici.

La faccia del medico dopo aver sentito il nome fasullo era piuttosto confusa, come se non avesse mai avuto a che fare con un paziente di nome Albrecht Meyer: ormai certi nomi escono dalla nostra bocca con una spontaneità impressionante.

«Forse ancora non si è svegliato e non aveva documenti con sé» mi sono giustificato, e la sua espressione corrucciata è immediatamente mutata.

«Allora potresti descrivermi il tipo di ferita?» mi ha chiesto, e mi sono trovato a parlargli del colpo d'arma da fuoco che ha trapassato la spalla causando una fuoriuscita vertiginosa di sangue.

E così è da circa un quarto d'ora che camminiamo per l'Ospedale, e ancora non sono riuscito a riconoscere Alexander.

Ho studiato minuziosamente ogni singolo millimetro quadrato dell'edificio, la scarsa manutenzione e la costruzione: dall'entrata si ha libero accesso a un'enorme stanza in cui centinaia di corpi sono ammassati per terra, disposti in modo tale da formare corridoi stretti attraverso i quali il medico-chirurgo e la sua troupe possono passare per controllare i feriti in stato di convalescenza.

Ogni soldato presenta una cartellina clinica affissa a un bottone della giacca per evitare di perderla durante eventuali spostamenti, nonostante la vicinanza con gli altri infermi renda il compito pressoché impossibile: ringrazio il Cielo per avermi dato l'idea di cambiare i vestiti di Alexander e mettergli quella dannata giacca.

Il medico mi spiega che generalmente non entra nessun famigliare, e né tanto meno le regole della Krankenhäus lo permettono, ma hanno bisogno di spazio, e una volta tanto possono fare uno strappo alla regola: sono stupito dalla flessibilità di questo dottore che lo rende completamente diverso dalle marionette intransigenti.

«I pazienti ricevono un primo trattamento nelle tende allestite per la città, - continua a spiegarmi- ma il bombardamento di questa notte ha reso necessario lo spostamento. Controlliamo con una minuzia estrema lo stato del soldato, e in base all'esito del controllo generale gli attribuiamo un codice, che stabilisce l'urgenza dell'intervento e l'ordine: codice rosso per, come potrai dedurre, i pazienti in condizioni critiche, e codice verde per ferite meno preoccupanti.»

A questo punto mi conduce su per una scala dove la situazione è decisamente diversa: non si sente più il brontolio degli uomini che vogliono tornare sul campo di guerra, i lamenti dei soldati destabilizzati a causa di un qualche anestetico e il vociare confuso di qualche "vicino di centimetro quadrato" che racconta aneddoti vari.

Qui il numero minore di soldati e i piccoli letti improvvisati rende l'aria più respirabile e mi salva dal senso di oppressione che ho provato quando sono entrato nell'Ospedale.

Continuiamo a camminare fino a quando, finalmente, lo vedo: è sdraiato sul letto con gli occhi chiusi e una flebo attaccata al braccio.

«Dottore, è lui» gli dico, e il medico, dopo essersi accertato che il battito sia costante e la flebo piena, mi dà una pacca sulla schiena e se ne va: non vedo l'ora di dire ad Aaron, che è rimasto fuori con il nostro nuovo piccolo amico, che Alexander è vivo e sta bene!

Mi avvicino a lui con una calma estenuante e gli stringo il braccio che non è attaccato alla flebo per fargli forza.

Ancora non mi sono abituato a vederlo vestito così, e la giacca, che gli dà un tocco austero, presenta qualche goccia di sangue, depositatosi lì probabilmente quando gliel'ho infilata con cura.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora