Capitolo 42

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Sarah inizia a riprendere conoscenza mentre io tiro un sospiro di sollievo.

Il suo pallore, i suoi movimenti convulsi e il fiato corto mi avevano fatto presagire il peggio, ma per fortuna questo è stato solo uno dei tanti cali di zucchero che da un po' di tempo a questa parte lamenta.

Malka le porta al letto un bicchiere con acqua e zucchero, rimedio infallibile, sostiene lei, per i ragazzi di salute cagionevole.

«Tieni, piccola mia, bevi» le dice, porgendole la bevanda.

Dall'altro lato del letto, Michael dorme pacificamente: ormai è un ragazzone robusto e in carne, nonostante abbia solo pochi mesi, e il suo sguardo furbo e gli occhioni attenti lasciano pensare che sarà un giovane sano e intelligente.

Sarah beve controvoglia, alzando debolmente il braccio ossuto: questo trema vistosamente, e non posso fare altro che pensare a come fossi mal ridotto quando Alexander mi ha accolto nel rifugio nel mese di dicembre.

«Vi lascio soli» conclude Malka, chiudendo la porta della camera dopo aver captato un'espressione furtiva della figlia.

Le uniche orecchie indiscrete che rimangono nell'abitacolo sono quelle del piccolo, e quasi mi lascio scappare un risolino pensando a come la mia fantasia mi induca a pensare che Michael sia già cresciuto: il tempo passa, e lui rimane più pacifico che mai, se non fosse per quel panciotto che reclama cibo in continuazione!

Essendo agitato cammino avanti e indietro per la stanza, portandomi le mani nelle tasche dove trovo le chiavi che poco prima vi avevo segretamente nascosto.

Non appena noto che Sarah tenta di mettersi a sedere, corro verso il letto, toccandole la spalla esercitando una lieve pressione per far sì che rimanga sdraiata e assolutamente rilassata.

«Non puoi fare sforzi. Sei debilitata, e hai bisogno di riposo» le dico in un sussurro, continuando a spingerla con delicatezza.

«Sto bene Uri, lasciami. So cavarmela benissimo da sola, e se il tuo obiettivo è quello di farmi addormentare così che tu possa andare a combinare guai in giro, allora sappi che ti terrò d'occhio per tutto il tempo, giorno e notte» mi dice, spalancando un occhio.

Mi lascio trasportare da una sincera risata per la sua buffa espressione, ma i suoi occhi torbidi e la bocca che quasi sembra emettere grugniti mi fanno tornare sui miei passi.

Alzo le mani in segno di resa, e nel mentre mi siedo sul suo letto, mentre lei tenta di farmi spazio.

«Beh, te la sei proprio cercata» le dico, e lei non fa in tempo a chiedermi a cosa mi riferisca che già mi sono buttato su di lei per farle il solletico.

Lei si muove in maniera agitata, ed è quando alle risa si alternano i colpi di tosse che mi blocco e mi mordo metaforicamente le mani per la mia stupidità.

Passa un po' di tempo dopo il quale la sua voce limpida e cristallina mi distoglie dai miei pensieri.

«Parlami di Shimon» mi dice, mettendosi più comoda.

Io la guardo con stupore, e, dopo essermi accomodato tra lei e Michael sul letto ed essermi beccato una ramanzina per non essermi tolto le scarpe, inizio il mio racconto, guardando nel vuoto, come se in cuor mio volessi ricostruire il bosco, il rifugio e gli orfanelli, miei fratelli, amici e compagni di gioco.

«Shimon era sempre stato per me un ragazzo enigmatico, sin dal nostro primo incontro. Io ero entrato nella loro abitazione la sera prima, e avevo dormito profondamente fino a quando i raggi del sole e l'angoscia di non piacere ai miei coinquilini provvisori non mi hanno svegliato. Dopo essermi sbarazzato del primo torpore, sopraffatto da un senso di gioia ho iniziato a saltare sul letto in mutande, sì, in mutande!» insisto, notando la sua espressione divertita e incredula che mi contagia inevitabilmente.

«E non è tutto! A fare da spettatori c'erano tanti occhi ingenui che cercavano di farsi spazio fuori dalla rimessa in cui avevo passato la notte. Facevano commenti, scherzavano, alcuni erano terrorizzati, ed è in quel momento che ho capito che il primo incontro non era stato dei migliori, ma sicuramente avrei sfruttato quella piccola ancora di salvezza per uscire dalla mia timidezza e recitare la parte del fratello maggiore che non mi è mai uscita troppo bene.
Ed è proprio in quell'occasione che Shimon ha tastato il terreno, punzecchiandomi e guardandomi con poca convinzione: un bel ragazzo della mia età, mingherlino, ma con un paio di occhi neri che talvolta mi facevano anche trasalire!
Mi hanno detto che aveva perso il fratello» continuo, e la sua espressione delusa stringe il mio cuore nella sua morsa.

«Avevo intuito però che il suo odio trascendeva le questioni familiari, e le parole che mi ha rivolto hanno confermato i miei sospetti. Mi ha parlato di te, di quanto ti ammirasse, del senso di gelosia e di abbandono che provava quando tu uscivi per passeggiare con me e di come il suo sconforto avesse superato il desiderio di darmi una possibilità. Tu sei stata nei suoi pensieri fino a quando ha esalato il suo ultimo respiro, e mai, neanche una volta si è permesso di parlare di te con odio o disprezzo. C'era solo un sincero amore» concludo.

«Oh povero, caro Shimon» sospira, ed è solo quando torno a guardarla che noto delle lacrime solitarie che le solcano il viso.

La accolgo tra le mie braccia, cullandola.

Mi sento meschino a consolarla quando io stesso l'ho portata via da Shimon, togliendo a quest'ultimo la possibilità di conoscere meglio Sarah, ma ancora una volta torno a dirmi che sono innocente.

Non è colpa tua, Uri, non sei artefice di tutto ciò che di brutto capita in questo mondo, mi ripeto.

Sarah intanto, dopo essersi tranquillizzata, cade in un placido sonno, e la sua espressione è talmente innocente che mi ricorda quella del fratellino.

Mi alzo con lentezza dal letto, facendo sì che le molle non causino uno scricchiolìo compromettente, ed esco dalla stanza.

Malka, seduta ancora una volta in cucina, mi accoglie con uno stanco sorriso.

«Dorme» le dico, poggiando sul tavolo il bicchiere che presenta qualche granellino di zucchero sul fondo.

Penso ad argomenti per smorzare la tensione, quando il pianto di Michael si fa spazio nella cucina.

«Vado» dice Malka, correndo nella camera.

È in questo momento che, dopo essermi guardato intorno con un sospiro, apro la porta ed esco.

Le scale del palazzo mi sembrano così estranee in questo momento, tanti sono i giorni che ho passato chiuso nell'appartamento.

Mi affretto a scendere, sperando che qualche vicino ficcanaso non mi stia spiando, ed esco, guardandomi intorno.

Sono spiazzato: ho visto solo una volta questo quartiere, ed era notte, pertanto non riesco ad orientarmi.

I passanti che camminano lungo la strada mi spaventano: mi sembra che mi stiano guardando con circospezione, mentre in realtà sono concentrati sui loro problemi.

In qualche modo arriverò alla mia destinazione: come dal rifugio sono arrivato benissimo ad Alexander Platz, così dal centro di Berlino andrò al ghetto.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now