Capitolo 29

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Settimana della memoria
Libro del giorno: Il diario di Anna Frank

Sono tornato nel centro della città in cui la macchina nazista opera con la sua massima ferocia.

Tutto era invariato: la capitale, nella sua cieca distruzione, rimaneva impotente di fronte alle macchinazioni delle spietate marionette.

Avendo bisogno di conforto, sono andato da Anja e, dopo vari tentativi, sono riuscito a descriverle l'accaduto nei minimi dettagli.

Ho avuto modo di parlare con lei dopo un po' di tempo, dato che l'ospedale era particolarmente pieno, e tutte le infermiere e i medici erano irrimediabilmente occupati.

Ho saputo che i Tedeschi stanno perdendo uomini: gli Alleati premono, eccome se premono e, nonostante la Germania possa vantare degli U-Boot invidiabili, la caduta dei soldati inizia a farsi sentire.

Proprio per questo, mi ha spiegato Anja, bisogna salvare il salvabile: amputare arti per evitare infezioni o fenomeni di cancrena, operare secondo criteri medici e debellare le epidemie onde evitare ulteriori morti di massa.

Io ho intavolato la conversazione: stanco, affaticato a causa del viaggio e terrorizzato, ho raccontato nei minimi dettagli della distruzione del nostro edificio e delle immagini mostruose che mi sono trovato davanti.

So che è tedesca, so che potrebbe essere collegata ad uno di quei mostri travestiti da uomini e che potrebbe rappresentare un pericolo tangibile per me, ma una forza irrazionale mi spinge ad aprire ciecamente il mio cuore a lei e, d'altro canto, ho una grande necessità di sfogarmi.

Le conversazioni con gli altri sono la mia unica valvola di sfogo: non posso strillare, perché un Tedesco potrebbe sentirmi; non posso parlare tra me, perché un Tedesco potrebbe accorgersene; non posso giocare, perché non ho strumenti; non posso scrivere, perché ho a malapena i miei vestiti addosso.

Pur sentendomi giudicato ed esposto a commenti altrui, mi sento meglio, svuotato, rinvigorito.

Lei, dal canto suo, si è limitata ad ascoltarmi, a scuotere la testa e a cingermi con le sue braccia in un abbraccio carico di affetto.

Non le ho mai detto nulla su chi sono e da dove vengo, sa solo che sono ebreo, e questo sembra un motivo sufficiente per riservarci un'attenzione particolare e privilegiata, e per offrirci aiuto e sostegno in un mondo in cui ogni giorno veniamo denigrati, derisi, umiliati, impoveriti, diventiamo oggetto di soprusi e percosse senza avere sostegno alcuno, o per lo meno la speranza di poter trovare da qualche parte un pasto caldo, un medico serio, minuzioso e competente, la nostra famiglia.

Anja ha cercato di farmi distrarre, parlando di pazienti stravaganti e scene esilaranti, facendo diventare l'ospedale, davanti al suo ascoltatore, come una clinica psichiatrica o, ancor meglio, un ospizio, emettendo le parti in cui infiltrati (come i cari vecchi Alexander e Shimon) sono stati scoperti e trascinati brutalmente via dalla struttura: io, però, ho avuto modo di conoscere bene i ritmi dell'ospedale tedesco, e ho assistito a simili scene.

Ora Anja mi guarda, scrutandomi con quei suoi occhi azzurri che, nel suo caso, non possono avere nulla di malvagio.

Mi guarda, cercando di capire tutto ciò che non le ho detto io, cosa nasconda quest'anima martoriata.

Mi entra dentro, nella profondità, nelle ossa, mette a nudo le mie sensazioni e cura le ferite che non si sono cicatrizzate.

Mi fissa, mordendosi il labbro e, con mio grande stupore, riconosco quell'atteggiamento: è lo sguardo di una Tedesca che vuole beneficare un Ebreo.

In mezzo al sospiro del ventoTahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon