Capitolo 40

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Malka cerca disperatamente di tenere a bada il bambino, ma ogni suo tentativo sembra vano.

Si alza in piedi, lo culla, lo coccola e tenta di tranquillizzarlo, ma il suo strillo incessante fa presagire seri problemi.

La mamma inizia a parlare da sola.

«Si è appena svegliato, quindi non può essere stanco. Per quanto riguarda il latte, l'ho appena nutrito, quindi la fame è fuori discussione. Non ha la fronte calda, quindi deduco che non sia neppure malato. Se nessuna di queste opzioni è valida, cosa mai può aver scatenato i suoi capricci?» si chiede, e la risposta non tarda ad arrivare quando un odorino sgradevole inonda la stanza.

«E ora come facciamo? Non abbiamo nulla con cui cambiarlo!» constata, e il bimbo, che ora si è improvvisamente calmato, emette un risolino.

Io lo guardo di sottecchi con un certo astio, e continuo a osservare le mosse di Malka e di Sarah.

È questione di minuti perché la mia storica maglia ridotta a brandelli per via del folle piano di Anja fasci dolcemente il bacino del piccolo, mentre io me ne sto in disparte a braccia conserte, con uno sguardo duro e lo stomaco che brontola forte.

So che è decisamente più sicuro venire di notte per la bella Tedesca, ma la fame mi sta sopraffacendo e, a giudicare dalle espressioni, anche Sarah e Malka sono piuttosto affamate.

I miei pensieri vengono interrotti dal clic della porta che si apre con un sinistro cigolio.

Ci nascondiamo nella camera da letto, con il bambino che fortunatamente si è placato, mentre nel silenzio dell'appartamento sono appena udibili i rumori prodotti dai passi dello sconosciuto, dai nostri cuori, che minacciano di uscire dal petto, tanto battono forte, e dalle nostre pance, ovviamente.

Tiriamo all'unisono un sospiro di sollievo quando udiamo una vocina femminile dalla porta di ingresso.

«Ragazzi, sono io» sussurra Anja, così noi usciamo allo scoperto.

«Speriamo che abbia portato almeno un po' di cibo la biondina» brontola Sarah tra sé, e la madre la rimprovera per la sua maleducazione.

Non appena entriamo nel modesto salone, notiamo che Anja sta tirando fuori dei prodotti da un sacchetto di carta, così ci proponiamo di aiutarla, io compreso, che nel rifugio ho spesso cercato di dare il mio contributo in qualche modo, nonostante in più di un'occasione abbia perso il senno.

«Come mai sei qui? Non è prudente per te farti vedere in giro di giorno da queste parti» le dico con premura, tentando in ogni caso di non alzare il tono di voce per evitare di essere sentito dai vicini.

«Questo è un caso isolato. Sapevo che non avevate scorte di cibo, quindi ho deciso di intervenire!» spiega, senza togliere gli occhi dalla busta che ha appoggiato sul tavolo.

Anja ha avuto la premura di acquistare diversi prodotti e, a giudicare dalla quantità di cibo che occupa il piano, penso proprio che avrò una colazione sostanziosa.

Ripenso a quanto la fame abbia reso il primo pasto nel rifugio, dopo giorni di digiuno, prodotti rubati e scodelle d'acqua, uno dei migliori della mia vita, e non posso fare nient'altro che trattenere le lacrime.

Prendo in disparte la Tedesca, mentre Sarah e Malka sistemano il tutto.

«Non sai quanto io ti sia grato per tutto questo, ma credo che sia meglio non vederci più» le dico, prendendo la sua mano tra le mie.

«Cosa? Perché?» mi chiede lei toccata, ritirando la mano.

«Ti stai cacciando in un guaio più grande di te. Se ti scoprissero non avresti vita facile» le spiego cercando di incrociare il suo sguardo.

Lei scrolla le spalle, abbassando il capo: scorgo preoccupazione nei suoi occhi ma, conoscendola, non si arrenderà con facilità.

«Parlando d'altro. Ho bisogno di una psicologa» le dico, facendo un sorrisetto sghembo.

«Non ne ho mai avuto dubbi» mi schernisce Anja, invitandomi a proseguire.

«Ho problemi di insonnia. Tento disperatamente di addormentarmi, ma gli incubi puntualmente mi assalgono. Ho pensieri negativi anche mentre tengo le palpebre spalancate» espongo.

«Non te ne libererai mai fino a quando non ti sarai convinto del fatto che non c'entri nulla con la loro scomparsa» constata portando una mano sulla mia spalla.

Prima che se ne vada, la blocco per un braccio.

Lei osserva la mia presa solida, dà una leggera scossa, e mi guarda con sguardo duro e a braccia conserte.

«Pensi che si possa fare qualcosa per Sarah?» le chiedo.

Ci voltiamo appena verso la porta, e osserviamo la mia giovane amica mentre scherza con la madre.

Ha un sorriso forzato, posso notarlo: quel luccichio che trapassava i suoi occhi, le fossette e le guance paffute sono sparite, e hanno lasciato debolmente il posto a delle labbra sottili e secche e un volto scarno.

I capelli sono come sempre, corti, privi di vita, e temo che il suo piccolo stomaco debilitato non reggerà pasti abbondanti.

Non ha più fatto riferimento alle confidenze che ci siamo fatti quella notte circa le violenze che ha subito, ma la cicatrice in evidenza rievoca ricordi spiacevoli, e la mia mente elabora immagini che si aggiungono a quelle reali.

«Io mi sto ancora specializzando. Un tumore non è qualcosa che si cura facilmente, e io non ho esperienza a sufficienza. C'è bisogno di strutture e farmaci adeguati, ma questo di certo non è il momento in cui i medici hanno voglia di impegnare la loro mente con delle patologie del tutto sconosciute» mi spiega.

La sua risposta non mi sorprende: in cuor mio già la conoscevo.

Torniamo nella cucina, dove Sarah ora tiene in braccio il piccolo fratellino, coccolandolo e viziandolo.

«In quelle buste ci sono anche dei vestiti. Sono dovuta andare un po' ad occhio, spero che le taglie siano giuste. C'è anche qualcosa per il bimbo» spiega timidamente.

Malka le dà un bacio in fronte, ringraziandola con affetto.

Sarah è più distaccata, ma non può fare nient'altro che mostrarle la sua riconoscenza.

Anja mi guarda appena, si volta, ed esce.

Per fortuna le mie coinquiline non chiedono spiegazioni, così riesco a godermi almeno la colazione.

C'è di tutto: uova fresche, pane, marmellata e burro.

Una volta sazi ci ritiriamo nelle nostre camere, in un buio straziante e un silenzio fastidioso.

Ardo dal desiderio di parlare e sfogarmi con qualcuno, ma per questioni di sicurezza vivo come un eremita, così prendo un pezzo di carta e inizio a scrivere.

Non mi viene in mente nessun destinatario che non sia mia madre, ma la ragione mi dice che l'inchiostro creerebbe delle parole troppo dure.

Penso a come le cose sarebbero state diverse se lei non si fosse lasciata prendere dalla codardia e dalla libidine, e un senso di rabbia si impossessa del mio corpo, spingendomi a fare giustizia e tentare di prendere i miei fratellini sotto le mie cure.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now