Capitolo 37

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Di notte Anja è passata a prendermi.

Ho visto dei movimenti dalla tendina, e Sarah non ha potuto fare nient'altro che tentare di nascondersi sotto le coperte.

Per quanto il discorso sia stato difficile da digerire, abbiamo passato una piacevole serata: Sarah parla tanto, si commuove, ride e si arrabbia con la medesima facilità, e io amo assistere a questo suo repentino cambio d'umore, cosa che d'altronde ho sempre fatto.

Anja ci ha spiegato la situazione: i morti in guerra hanno superato di gran lunga le aspettative, e ora l'esercito tedesco ha bisogno del massimo delle munizioni e delle forze.

I soldati passano in rassegna ogni stanza: dicono che, sorprendendo i pazienti, potrebbero smascherare i feriti meno gravi che, a detta loro, cercano solo vitto e alloggio gratuiti.

Al momento, le aree setacciate sono solo quelle al piano terra, ma un paziente per stanza può essere difeso con maggiore facilità.

Che fosse gelosa della mia antica fiamma? Questo non so dirlo con certezza, ma il suo sguardo posato sulle nostre dita intrecciate la diceva tutta sul suo stato d'animo.

Devo rimediare, non appena la situazione si sarà stabilizzata.

Intanto, non posso fare nient'altro che ammirare il soffitto di questa claustrofobica stanza, coprendomi per l'improvviso freddo che entra dalle finestre del corridoio.

Chiuso in quella che oramai è diventata la mia amata stanza, blocco Anja prima che possa uscire: c'è qualcosa che non mi convince.

«Anja, dimmi la verità» la supplico.

Lei si ferma, continuando a darmi le spalle, e decide di non mentirmi ulteriormente, avendo capito che non sopporto le bugie.

«Uri, non posso più tenervi qui» mi dice voltandosi, e solo ora noto un dettaglio: ha le lacrime agli occhi.

Decido di alzarmi, e, avendo gli arti doloranti per la prolungata permanenza nel letto, faccio attenzione a mettere lentamente un piede davanti all'altro, nonostante lo spazio ridotto.

«Uri, ne hanno uccisi altri» mi spiega, e queste poche parole mi bastano per capire che i Tedeschi non si sono lasciati sfuggire i movimenti sospetti nell'ospedale.

«Non lo dico per me, Uri. Io per i miei pazienti darei la vita, e se stiamo parlando di un amico, allora sarei anche disposta a commettere un omicidio. Ho così tanta paura di perderti...» mi dice.

La guardo. La fisso intensamente negli occhi, le asciugo le lacrime con i pollici, e decido di fare un nuovo, azzardato passo in avanti: la bacio.

Lei in un primo momento rimane immobile, ma subito dopo ricambia.

È un bacio delicato e gentile, nonostante paradossalmente il contesto e la situazione non siano delle migliori.

Ho passato giornate intere chiuso in questa stanza senza avere un contatto fisico, pensando a come potesse reagire Anja a una mia mossa avventata, ma ora voglio godermi il momento.

Mentre le nostre labbra si muovono in sincronia, penso a una sola cosa: questo è il mio primo bacio.

Quando ci stacchiamo, sento che al tempo stesso si forma e si ricolma un vuoto dentro di me che mi provoca una grande agitazione.

Lei non dice niente, sorride, e se ne va.

Quel sorriso dice tutto: il suo sollievo per aver capito che oramai, tra me e Sarah c'è solo una genuina amicizia, l'imbarazzo per un momento tanto intimo, la disapprovazione per questa mia sfacciataggine, e quella preoccupazione che non ci ha permesso di goderci il momento.

***

Dopo ciò che è successo questa notte, Anja mi ha fatto visita poche volte, con grande fretta e irrequietezza.

Non abbiamo fatto nessuna allusione al nostro bacio, e d'altro canto, visto il suo nervosismo, ho preferito ascoltare gli aggiornamenti.

I Tedeschi, avendo intercettato dei movimenti sospetti, si sono attivati per far chiudere l'ospedale.

Il fratello di Anja, dottore dell'impianto, ha tentato di condividere con i soldati i benefici che una struttura ospedaliera in più potrebbe comportare: servizio sanitario efficiente e rapido per permettere agli uomini di tornare sul campo, soggiorno provvisorio per tutti coloro che hanno perso la casa (per evitare un ulteriore grattacapo al "Führer") e invio di medicine per un primo soccorso funzionale.

Le SS, alle loro parole, si sono limitate a rispondere "ordini dall'alto", aggiungendo che, in pochi giorni, avrebbero perlustrato ogni settore dell'ospedale.

«Devo andarmene» rispondo ad Anja durante una delle nostre rapide conversazioni: ormai non è prudente che un'infermiera rimanga troppo a lungo in una stanza.

«E dove vorresti andare? Sai quanti Ebrei sono rimasti a Berlino? La popolazione è stata decimata! Ci sono dei movimenti sospetti. Non so cosa stia succedendo, ma questa loro scomparsa non mi va giù» mi spiega.

Penso dunque ai miei nonni in Polonia: chissà se loro stanno vivendo la nostra stessa situazione.

Ho pensato più volte di intrattenere una corrispondenza con loro, ma le persecuzioni e la mia fuga mi hanno fatto completamente passare di mente la loro situazione.

Penso a come possa raggiungerli, ma non ho né beni, né coraggio: e se venissi sorpreso alla dogana? La mia testa salterebbe in aria con un solo proiettile.

«Non farlo, ti prego» risponde Anja, non condividendo la mia idea.

«Cosa posso fare? Ho passato mesi a scappare, sono fuggito, ho affrontato situazioni pericolose, e ora dovrei morire in una maniera così stupida?» le dico.

«Non hai nessuno che possa prendersi cura momentaneamente di te?» mi chiede, passandosi una mano tra i capelli, legati in una crocchia.

«Conosci già la risposta» rispondo con risentimento.

«Questa notte me ne vado, con o senza il tuo aiuto» concludo.

Lei esce, chiudendo con furore la tenda.

Io, dal canto mio, mi metto in piedi: come io non merito una morte prematura, così altre persone devono salvarsi.

Vista la scarsa quantità di luce che entra dalle finestre, suppongo che sia pomeriggio inoltrato, quasi sera.

Così, apro lievemente le tende, guardandomi intorno per assicurarmi che nessuno stia passando.

Dopo che un'infermiera ha attraversato il corridoio, entro velocemente nella stanza di Malka: ho la certezza che sia ancora qui, in quanto sento spesso il bambino piangere.

Ha un sussulto, e, dopo avermi riconosciuto, si porta una mano alla fronte, mentre allatta il figlio.

«Uri, cosa ci fai qui?» chiede Malka, accarezzando delicatamente la testa del piccolo.

«Malka, dobbiamo andarcene. Stanno sgombrando l'ospedale. Ci troveranno!» le spiego.

«Dove vorresti andare, nel ghetto? Ti ci è voluto tanto per uscire di lì, e ora vuoi compiere questo passo folle? Non cambierebbe nulla, Uri. Moriresti lì, e moriresti qui. Dobbiamo trovare un'altra soluzione» mi spiega, e io non posso fare altro che darle ragione.

«Magari il dottore che si è occupato di Sarah potrebbe darci una mano» azzarda.

«Meno persone conoscono i nostri spostamenti, meglio è» rispondo.

Lei tenta di ribattere, ma io la blocco con la mano. Penso alle parole di Sarah, e provo compassione verso questa donna che non è stata messa al corrente delle violenze sulla figlia.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora