Capitolo 8

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È da tutta la mattina che aspettiamo Alexander, eppure non abbiamo ancora nessuna notizia.

Mentre le ragazze sparecchiavano la tavola e pulivano le stoviglie, noi maschi ci siamo cautamente addentrati nel fitto bosco che abbraccia il rifugio e lo rende tale, un luogo apparentemente sicuro, nascosto e protetto, nonostante con le marionette naziste qualsiasi forma di protezione sia precaria.

Zen sembra un'anima in pena, non si dà pace dall'ora di colazione, quando abbiamo avuto quell'alterco che si è concluso con occhiatacce e calci sotto al tavolo.

Mi sarei lamentato ulteriormente se non avessi avuto tutti quei sensi di colpa che da un po' di tempo a questa parte riempiono le mie giornate.

E ora, seduti sul grande divano a fiori nel soggiorno, guardiamo la porta accuratamente chiusa a chiave nella speranza che qualcuno bussi.

Shimon, con quel muso che ormai è entrato a far parte della sua fisionomia, tiene Orly in braccio con premura, seduto sul bracciolo.

Aaron è poggiato allo schienale, con gli occhi chiusi e il volto rivolto verso l'alto. Riesco indistintamente a vedere il suo cipiglio e le narici che vibrano ogni volta che espira, frustrato, stanco come tutti noi delle ingiustizie della vita e dell'attesa che sale sempre di più.

Ruth è inginocchiata davanti al divano, mentre lo guarda e gli sposta delicatamente i capelli dal viso, tentando, per quanto sia possibile, di farlo rilassare.

C'è poi chi va su e giù per la stanza, torturandosi le mani, e chi confabula nella piccola cucina, come me e Zehava.

«Dove pensi sia finito?» mi chiede lui, con un'espressione afflitta che lascia trapelare un grande dolore.

«Non lo so, altrimenti sarei già uscito per andare a cercarlo» gli rispondo, riempiendomi un bicchiere d'acqua per schiarirmi la gola e per evitare di incrociare lo sguardo di Zen che, sicuramente, è ricco di rimproveri e insulti non pronunciati.

«Pensi gli sia successo qualcosa di grave?» insiste, prendendosi il mio bicchiere.

«Ancora? Cosa posso saperne io? Sono come tutti voi, non sono né un aedo, né un oracolo. Non ho poteri profetici e né tanto meno una musa che possa ispirami. Mi hai per caso scambiato per un Omero moderno?» gli chiedo frustrato.

«Non posso saperlo, si dà il caso che il nuovo arrivato sia un tantino introverso, e nessuno di noi ha capito chi tu sia o da dove tu venga. Non ho forse ragione Saul? O forse dovrei dire Uri?» mi chiede, sottolineando la parola finale.

Gli faccio segno di abbassare il tono di voce ed esco dalla cucina per mettere fine ad un'altra delle nostre immancabili discussioni.

Orly mi guarda confusa, lisciandosi le sue solite treccine.

«Che succede, Saul?» mi chiede premurosamente. Evidentemente deve averci sentito bisticciare.

«Niente, non preoccuparti» le rispondo, accarezzandole i capelli.

Mi ricorda tanto Amos, uno dei miei fratellini: voleva sempre portare la pace in casa, interessandosi talvolta ad argomenti che non gli competevano.

Guardo Shimon che tiene ancora in braccio la bambina, aspettandomi una delle sue battutine che, con mia grande sorpresa, non arriva.

Aaron si alza di scatto dal divano, superando Ruth che lo guarda con un'espressione carica di preoccupazione mista a terrore, e si avvicina alla porta, sfiorando la maniglia.

«Cosa hai intenzione di fare?» gli chiede Ben, seguendolo.

«Qua fuori si gela ed è pomeriggio inoltrato. Sono preoccupato, e devo trovarlo» spiega Aaron, guardandoci uno ad uno, come se si aspettasse che tutti lo seguissero.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now