Capitolo 68

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Ottobre 1944
Malka

Respiro a fatica l'aria pesante di Auschwitz, guardando il filo spinato che separa il campo femminile da quello maschile.

La mia pelle è nel più completo stato di decadenza per via di una scarsa alimentazione e delle rare docce, mentre sento che i capelli stanno lentamente spuntando sul mio capo.

Cerco costantemente con lo sguardo Uri, ma nessun ragazzo sembra somigliargli abbastanza.

Passo la mia giornata a guardare uomini che vengono spinti con veemenza sul ciglio delle piccole stradine che si incrociano nei campi, mentre il fumo delle camere a gas mi soffoca.

Dicono che non sai mai quando da quei rubinetti esce acqua e quando invece si rivelano trappole mortali, così, se non veniamo costrette, cerchiamo il più possibile di sottrarci alle giornate di "pulizie".

Ora che il sole inizia a tramontare decido di tornare in camera, sperando di non essere di nuovo costretta a mangiare da sola: meglio una donna isterica, concentrata sulla sua vecchia vita e sulle sue stravaganti esperienze amorose, piuttosto che il silenzio.

Dapprima condividevo il letto con tre donne, ma, nella strage di massa, due ci hanno lasciato.

La più vecchia, Agata, era polacca, ed era impossibile parlare con lei, mentre la più giovane, Petra, di venti anni, che al momento dorme ancora con me, è tedesca, e credo di averla vista nel treno insieme a me, Sarah e Uri.

Parlando di quello screanzato di Uri, mi chiedo dove lo abbiano portato quelle bestie.

Ardo dalla voglia di incontrarlo, tenerlo stretto tra le braccia e vedere spuntare un sorriso su quel suo bellissimo volto.

Esattamente pochi giorni fa, mentre con Petra andavo nella baracca dei più piccoli per dargli il pane che avevamo messo da parte per l'occasione, ho visto Giuseppe, suo padre.

Quando ho incrociato il suo sguardo, in un primo momento non lo avevo riconosciuto: ero convinta di aver visto quell'uomo prima di quel momento, ne ero certa, ma non riuscivo a ricollegare.

E a giudicare dalla sua espressione, lo stesso doveva essere per lui, perché abbiamo passato qualche secondo a fissarci come pazzi con un grande punto interrogativo dipinto sulle fronti corrucciate.

Poi, in un millesimo di secondo ho ricordato le serate nella sua casa a cenare insieme, le feste dell'Hanukkah, gli Shabbat, i nostri figli che crescevano insieme e la preoccupazione della moglie quando non ha visto per un po' di tempo né Giuseppe, né Uri.

L'ho abbracciato: è stato un abbraccio intenso, confortevole, e io, desiderosa di vedere uno sguardo familiare e di sapere che la Germania non mi aveva portato via tutti gli affetti, ho inzuppato la sua maglia di lacrime.

Abbiamo scambiato poche parole, ed è riuscito a dirmi solo che lo avevano momentaneamente spostato nel nostro campo per occuparsi dei forni.

Lo ha detto con vergogna, ma io in quel momento volevo solo raccontargli del mio straordinario incontro con Uri nell'ospedale.

Un soldato ha interrotto la nostra conversazione: Giuseppe si è sistemato il berretto, e, facendo finta di nulla, lo ha seguito, guardandosi indietro solo una volta.

Non l'ho più visto, ma qualcosa mi dice che la sua laboriosità nel campo lo salverà.

Io, invece, affronto con una certa positività il mio destino: temo il giorno in cui riusciranno a sbarazzarsi di me, ma vorrei profondamente ricongiungermi con la mia Sarah.

La sua voce, le sue risate rimbombano nelle mie orecchie, e Dio solo sa quanto la sua perdita continua a distruggermi.

Non è riuscita a passare neanche una notte con me: portata a fare i controlli al nostro arrivo, è bastato portarla di forza fuori per spararle in pubblico.

È bastata una sola pallottola: un colpo bene assestato le ha trapassato il cranio.

È stato così, rapido e indolore: i suoi occhietti si sono subito chiusi, e il rigor mortis ha irrigidito il suo corpo.

«La prego, si calmi. Non faccia così. Le hanno solo risparmiato ulteriori sofferenze» mi rassicura Petra, che continua a darmi del lei per rispetto.

Ormai conosce con esattezza le mie crisi di pianto, e io non so come contenermi.

Siamo sedute sul letto, in fondo alla baracca.

Il pensiero che l'inverno si sta riavvicinando mi getta in uno stato di disperazione, aggravando le mie crisi.

Lo scorso anno, quando siamo entrate qui, infatti, ci siamo posizionate nel letto più basso, e per via della pioggia e delle infiltrazioni si creava una terribile fanghiglia che alle volte raggiungeva le lenzuola, sporcandole terribilmente.

Siamo in un porcile, e forse Petra ha ragione, perché non so se, tra le sofferenze fisiche, la fame, la sete e le temperature insopportabili, mia figlia avrebbe potuto sopportare tutto ciò.

«Avanti, mangi qualcosa. Ha bisogno di energie» insiste Petra, mettendoni sulle gambe secche un po' di pane e la "zuppa" della serata.

«Petra, non ho fame. Dico sul serio. Domani riporteremo questo cibo ai bambini. Hanno più forze di me per digerirlo» la rassicuro con un sorriso tirato, e mi sdraio, tentando di chiudere gli occhi.

***

«Su, doccia!» strilla una donna.

Vengo insopportabilmente svegliata dalla voce graffiante della blakova di turno.

Nella baracca si crea la confusione generale: nessuno vuole lasciare il letto, e l'insistenza con cui i comignoli questi giorni hanno fumato è poco promettente.

Io mi faccio portare nelle docce, che distano pochi metri dalla baracca, senza troppe lamentele, mentre Petra cerca un modo per fuggire.

«Mi lasci!» strilla mentre la blakova la spinge assieme ad altre compagne, ma le sue lamentele sono inutili, perché viene portata in un discreto gruppo a fare questa benedetta doccia.

Nel frattempo, qualche donna viene accolta nelle baracche vicine, passando inosservata grazie ad una momentanea distrazione della donna.

Camminiamo guardando il cielo terso, con quei nuvoloni dietro i quali un sole pallido non riesce a farsi spazio, ed entriamo nel lurido edificio.

Tutte parlano, tutte strillano, tutte piangono.

Io, invece, canticchio, passando come una pazza.

Come si chiamava quel vecchio motivetto?

Penso ad una canzone di Chopin, forse il Notturno, che Sarah amava ascoltare con il padre, e che sapeva anche suonare.

Petra cerca di parlarmi, guardandomi con gli occhi pieni di lacrime, ma io sono troppo concentrata sull'opera 9 numero 2 per poterle prestare attenzione.

Tutte si spogliano, e io faccio lo stesso, poggiando i panni sulla panca.

Canticchiando, seguo le ragazze nel bagno.

Le altre, invece, devono farsi spingere, non avendo il coraggio di andare nella stanza.

Una lacrima solitaria scende sul mio volto.

L'opera, finalmente, si conclude.

Le luci, invece, si spengono, e neanche uno spiraglio di sole riesce ad entrare.

Tutte strillano, e io perdo di vista Petra.

I cuori delle donne battono freneticamente, ansiose di sentire le prime gocce d'acqua scorrere sui loro corpi intorpiditi dal freddo e dalla stanchezza.

L'acqua, però, non arriva, e non ho più le forze per poter canticchiare le note di Chopin.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora