Capitolo 67

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Sarà iniziato il nuovo anno? Siamo già nel 1944?

Mi chiedo quanti giorni siano passati dalla mia entrata nel campo mentre mi metto sdraiato, nel mio solito letto della baracca.

Saranno passati mesi ormai, forse quattro o giù di lì, perché le temperature, ora, sono un tantino più sopportabili.

Credevo che la routine qui dentro fosse sopportabile, ma mi sbagliavo di grosso.

Ho imparato quale sia il mio posto all'interno della fabbrica, come io debba comportarmi con i kapò e come razionare il cibo che mi viene offerto, ma ho inteso che non riuscirò a sostenere questi ritmi per altri giorni.

Il cibo, la cui qualità lascia a desiderare, non basta a soddisfare il mio corpo dopo una giornata di lavori pesanti nella fabbrica, e ho bisogno di riposo e di un letto più confortevole per i dolori del mio corpo.

Gli occhi iniziano a bruciare per tutto il tempo in cui li tengo aperti e fissi sul banco da lavoro, e sento che il mio corpo si sta ritirando a poco a poco.

Da Monowitz, vediamo indistintamente i comignoli di Auschwitz che lasciano fumo in continuazione, e l'impossibilità di non poter vedere i miei cari mi sta uccidendo.

Mentre mi rigiro nel letto, Friedrich compare dalla porta della baracca, spinto da due SS.

«Va bene, ho capito» strilla, mentre loro continuano a colpirlo.

Mi metto a sedere, e le luci del campo illuminano vagamente il suo profilo: ha un occhio pesto, e sul labbro dei graffi.

«Fred, che è successo?» gli chiedo, scendendo dal letto.

Gli altri non prestano attenzione alla scena, ma io non posso fare altro che preoccuparmi per le sue condizioni.

«Niente, lascia stare» risponde scorbutico, salendo sul letto dopo essersi tolto gli zoccoli.

«Su, avanti!» insisto, non dandogli pace.

Lui si lamenta per la fitta al braccio, poi sbuffa, vedendomi determinato a parlare con lui.

«Oh, e va bene, razza di ficcanaso. Ho accidentalmente urtato un kapò e mi hanno conciato per le feste» mi spiega sussurrando, mentre io lo raggiungo sul letto.

«Hai "urtato" un kapò gli chiedo, mimando le virgolette con le dita sulla seconda parola.

«Certo che non ti si può nascondere niente. Va bene, l'ho spinto. Mi stava col fiato sul collo. Ero stanco e non volevo lavorare, e lui continuava a stuzzicarmi come una bestia da circo. Tutto qui» conclude.

In questo momento vorrei dirgliene quattro per la sua stupidità, ma il sonno e la paura di svegliare gli altri compagni mi frenano.

«Che ti hanno fatto?» gli chiedo, notando l'espressione di dolore dipinta sul suo volto.

«Mi hanno buttato a terra e mi hanno dato due calci per farmi calmare. Hanno preso il volto e il braccio» mi spiega.

Cerca di muovere il braccio, ma deve stringere i denti per non urlare: deve essere rotto.

«Devi andare in infermeria. Non puoi lavorare in queste condizioni. Sei troppo debole» dico ingenuamente, preoccupandomi per le condizioni del mio amico.

«Sei pazzo? C'è quel tale, Safir, che va in giro dicendo che l'infermeria è un po' come un campo di Auschwitz in miniatura. Entri lì e non ne esci più. Dice che qualche mese fa un suo caro amico con un'infezione alle vie urinarie era andato lì per farsi dare qualche medicinale, e da allora non ha più dato segni di vita. In pochi hanno il coraggio di andare lì, e quei pochi incoscienti vengono letteralmente inghiottiti e digeriti. Quando avrò preso la decisione di suicidarmi, allora potrò farci un pensierino» mi spiega.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now