Capitolo 7

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Chiuso nella stanza del rifugio, nonostante la promessa fatta a Zen, cioè di smetterla di cacciarmi nei guai e di assumere degli incarichi che non mi competono, progetto un piano d'attacco, cancellando la tappa della tipografia.

Ripenso ancora una volta ai luoghi che mio padre era solito frequentare, a partire dalle case degli acquirenti dei suoi stupendi manufatti artigianali a tipografie, negozi di dischi, circoli letterari e via dicendo.

A meno che non andasse in qualche luogo pubblico senza metterci al corrente, sembra che gli ipotetici luoghi in cui mio padre si è nascosto siano terminati.

Pare quasi che la terra l'abbia inghiottito, che sia stato trattenuto dalle fauci delle SS.

Cerco di non darmi per vinto, nonostante le mie speranze stiano progressivamente lasciando spazio ad una visione pessimistica della vita, e apro il diario, perché ancora una volta mi sento solo, perché sento che nessuno possa comprendermi, perché preferisco sfogarmi con un foglio di carta piuttosto che rimuginare sui miei errori e su un possibile errore di percorso, su un'ipotetica falla nel circolo vizioso comunemente denominato "vita", sulla mia famiglia che si è sgretolata, mentre mi crogiolo tra le lacrime e aspetto pigramente che la guerra giunga al termine, senza far sentire la mia voce, senza lasciare un'impronta, perché non voglio essere così: non voglio vantarmi di essere un ragazzo che si discosta dalla massa quando non do motivi per essere ricordato.

***

Caro diario,
ora ci siamo solo io e te.
Siamo rimasti noi due, nonostante io faccia le tue veci.
Siamo rimasti noi due a farci compagnia, a spalleggiarci, a fingere che vada tutto bene e che la vita ci riservi emozioni e sorprese inaspettate.
Siamo rimasti noi due a guardare dalla finestra del mondo quanto dolore il sistema nazista infligga alla società d'oggi, restando egoisticamente in disparte.
Perché, caro diario, siamo oggettivamente due codardi che non fanno altro che giurare e spergiurare mentre portano ulteriore scompiglio nelle vite altrui.
Potrò sembrare un pazzo, d'altronde non sei nient'altro che un fascio di fogli rilegati tra loro nella loro patina giallastra, ma la solitudine spinge l'uomo a fare e dire cose insane.
Non offenderti, caro diario, ma sappiamo entrambi che è la verità.
Lo vedi come sono? Sbaglio a usare le parole. C'è una falla in tutto ciò che ha a che fare con Uri Almeda, o Saul, o come diamine vuoi chiamarmi: c'è una falla nella mia famiglia, nelle mie intenzioni apparentemente buone, nel mio linguaggio, nell'approccio col mondo esterno, nella tattica che uso per relazionarmi con gli altri.
C'è una falla nella mia testa, una grossa voragine che risucchia tutti coloro che mi tendono una mano: mio padre, ad esempio, che sembra sprofondato nel Tartaro, Alexander, che nel giro di pochi giorni ha perso il suo cane e ha scoperto quanto in realtà fossi un ingrato, Zehava, che mi ha seguito e ha rischiato di rimetterci la pelle.
La voragine ha risucchiato perfino la mia identità: chi sono io?, chi è Uri Almeda?, dov'è quel ragazzo spensierato che giocava con i suoi fratellini ed era punito per la sua sfrontatezza?
Non ho più idee, l'unica cosa che so è che vorrei svegliarmi dopo un lungo sonno e scoprire che sono semplicemente caduto in un grosso incubo.
Ma so che non è così, lo sento.
E allora mi ritrovo ad analizzare questo ragazzo che ha preso il posto del buon vecchio Uri.
Caro diario, abbiamo a che fare con un vero raccontafrottole.
Mi vanto di essere riuscito a scappare dall'occhio vigile dei nazisti, di averla fatta franca, di essermi nascosto nella città dalle mille sfaccettature, quando in realtà sono stato sorpreso due volte dalle marionette naziste e non ho fatto nulla per salvare anche gli altri.
E per altri intendo, giusto per citarne alcuni, mia madre, nonostante si sia dimostrata ancora più egoista del sottoscritto (piccola nota, ho appena scoperto da chi ho ripreso), i miei fratellini, il signore della tipografia e tanti altri.
Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Cosa voglio?
Una prima risposta si fa spazio tra le membra del mio cervello, uscendo dalla voragine: voglio la mia identità, e quel pizzico di coraggio e sfacciataggine che mi contraddistinguevano.
Tuo,
Saul

     ***

La luce del mattino si insinua prepotentemente tra le mie povere palpebre assonnate.
Ieri sera, a furia di scrivere su quelle pagine di carta, ho fatto le ore piccole, sfruttando una piccola candela che emanava una fioca luce, con l'intento di non disturbare Zehava che, intanto, russava beatamente.

Guardando la cera che si scioglieva sotto quelle fiamme sono riuscito a fare un'altra delle mie profonde riflessioni: ogni singolo umano brilla di luce propria; alle volte quella fiamma che brucia dentro di noi si affievolisce, dotandoci di una malcelata codardia, mentre altre è quello stesso fuoco a distruggerci.

D'altronde, cosa mi rimane se non uno spirito patriottico, l'amore per la lettura e la tendenza a sviluppare frasi di senso compiuto?

Scendo come ogni mattina al piano di sotto, notando con stupore che i ragazzi stanno per fare colazione dentro, e non fuori come a loro solito.

«Buongiorno, che succede?» chiedo sedendomi a tavola, pregustandomi un'invitante colazione.

«Questa notte Alexander ha sentito un fruscio sospetto fuori la casa, e non voleva correre nessun pericolo» mi spiega Aaron, poggiando i gomiti sul tavolo.
È una delle poche volte in cui l'ho sentito parlare.

«È uscito a perlustrare l'area circostante» aggiunge Ruth, stringendo la mano chiusa a pugno di Aaron.

Penso ci sia del tenero tra quei due, ma non ne sono sicuro.

«A quanto pare i nuovi arrivati portano con sé dei guai, tu che ne pensi, Saul?» mi chiede Shimon, scendendo dalle scale con un pantalone color beige e un maglioncino di lana.

Cerco di non prestare attenzione al suo commento irriverente, nonostante sappia che ha tutte le ragioni del mondo per incolparmi, insomma, quell'ipotetico soldato, ammesso che ce ne sia uno e che sia lo stesso del giorno precedente, stava rincorrendo me e Zen.

Lo stesso Zehava mi guarda di sottecchi, sistemando sulla tavola i piatti.

«Ti aiuto» mi offro, scostando la sedia.

Vorrei che smettesse di guardarmi così, mi mette soggezione.

Mi avvicino alla credenza recuperando i piatti mentre Zen prende dei bicchieri.

«La smetti?» gli dico a denti stretti per evitare che qualcuno possa sentire il suo immancabile sproloquio.

«Di fare cosa?» mi chiede con una tranquillità snervante.

«Di guardarmi così» gli faccio segno, indicando il suo volto corrucciato e al tempo stesso arrabbiato.

«Volevo solo farti capire, se per caso non ti è entrato in quella testa vuota, che la tua fuga cavalleresca ha messo in pericolo non solo te, e il sottoscritto che noncurante ti ha seguito, ma anche gli altri ragazzi» mi spiega tutto d'un fiato.

«Lo so, e mi dispiace» gli rispondo, chiudendo la conversazione per evitare di rovinare la nostra amicizia sul nascere.

Mi siedo ancora una volta a tavola, tra Orly con le sue classiche treccine e Zen che non fa altro che guardarmi preoccupato.

«Non dovremmo aspettare Alexander?» chiede premurosamente Orly.

«Non credo che arriverà presto» le spiega Aaron, che continua a stringere i pugni.

La consueta preghiera del mattino non abbandona la tavola degli orfanelli del rifugio: tutti pregano ad alta voce, mentre io ancora una volta rimango in silenzio, stringendo la mano di Orly e Zen, che ha una presa insolita, forte.

Nonostante oramai non sia più di tanto religioso prego dentro di me: prego per Alexander, per tutti gli ebrei del mondo, prego per noi.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now