Capitolo 10

188 26 14
                                    

C'erano quei giorni nel Ghetto in cui mi sentivo talmente solo da arrivare a struggermi, pensando a tutti gli aspetti negativi della mia vita.

Si trattava di quei momenti in cui mia madre, in un gesto di "collettività" e "solidarietà", si recava da qualche ebrea per sostenerla a seguito dell'improvvisa scomparsa del marito, mentre lei era la prima a non muovere nemmeno un dito per cercare di ritrovarlo.

Non la si poteva di certo biasimare, ma la sua reazione alla vista della casa vuota è stata a dir poco deludente: io e i miei fratellini abbiamo perlustrato ogni singolo metro quadrato di quel misero alloggio, mentre lei si è tranquillamente seduta e ci ha ordinato, con un tono carico di odio e di frustrazione, di rimanere fermi al nostro posto e smetterla di cercarlo invano; da quel momento ho iniziato a riflettere sulla cruda realtà che io, mia madre, non la conoscevo proprio.

In quei piccoli attimi invece i miei fratelli si rinchiudevano nella loro stanza a giocare: era a dir poco curioso come, tra i tre, il più grande, sempre pronto a sostenerli e a nasconderli dalla malvagità del mondo, venisse escluso.

Ecco, era in quei momenti che mi fermavo a riflettere, e vi posso assicurare che tutti i miei pensieri negativi che avevo accumulato pur di non far ricadere i miei malumori sulla mia famiglia prendevano vividamente vita nella mia povera testa.

C'era di tutto e di più.

Pensavo a quanto fosse facile la vita prima che la stragrande maggioranza del popolo tedesco si affidasse al Partito.

Pensavo alla mancanza di una figura paterna che mi nascondesse tutti gli aspetti negativi di questo mondo in rovina, proprio come io facevo con i miei fratelli.

Pensavo a come una famiglia che un tempo era unita nell'amore e nel rispetto reciproco si potesse sgretolare velocemente.

Pensavo poi a me, Uri, che non avevo un attimo di pace tra i pensieri di mia madre, quelli dei miei fratelli e i miei, che si sommavano in una miscela letale.

Pensavo alla mia figura, a quelle guance paffutelle, a quella pancetta di troppo, a quegli occhi che il Cielo solo sa quanto avrei preferito che fossero azzurri e a quei capelli che tra il vento e il mio continuo rigirarmi nel letto non avevano pace.

Quelli, per quanto tristi potessero essere, erano i miei attimi di pausa, quelle stesse pause che mia madre si prendeva continuamente e che, forse, continua a prendersi tutt'ora.

***

Ancora ammassati in questo bunker, io e Aaron stiamo quasi per crollare; oramai è da ore che siamo seduti qui, mentre Alexander è stato molto probabilmente medicato: spero solo che quel testone non si sia svegliato e non abbia rivelato la sua identità.

Il signore col flauto di Pan si è appisolato in un angoletto, mentre molti bambini si lamentano per la fame e per la nostalgia delle loro case che, indubbiamente, sono più confortevoli di questa "scatola antiaerea".

***

Ho appena chiuso gli occhi quando inizio a vedere la gente che, allegra, esce frettolosamente dal bunker, spintonandosi.
Io e Aaron, chiaramente, non possiamo essere da meno; tra la foga del momento e l'adrenalina che ancora ci scorre nelle vene saliamo le scale e ci imbattiamo in una delle albe più dure che abbiamo mai visto: questo sole freddo e pallido fa capolino dietro un ammasso indefinito di macerie, cadaveri e puzza di fumo che si insinua prepotentemente nelle nostre narici.

«Cosa facciamo ora?» mi chiede Aaron, cercando di ignorare la crudeltà di questa immagine: dove sono le vecchie bancarelle, le famiglie felici e i seri lavoratori?

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now