Capitolo 11

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Ogni problema ha una risoluzione, la bravura sta nel trovarla.

Ho sempre pensato che il detto "l'unione fa la forza" sia totalmente errato in quanto vedo l'autonomia come un trampolino di lancio verso il mondo degli adulti, con tutti i problemi intricati e le risoluzioni nascoste, in cui gli unici punti di forza sono il coraggio, l'amore, la spavalderia e, prima di tutto, l'indipendenza.

La solitudine, per quanto lancinante possa essere, deve essere vista alle volte come un valore, e non come una debolezza: fortifica il carattere e ci dota di quell'autodeterminazione che tanto scarseggia tra noi giovani.

O per meglio dire, scarseggiava, in quanto la guerra, con le conseguenti perdite, ti porta davanti a un bivio: cavarsela da soli o perdersi nel tempo che corre?

Perché in fondo la vita non è nient'altro che un miscuglio pazzesco di problemi da affrontare.

Aaron sta cercando di risolvere il suo, e Dio solo sa quanto spero che ne esca illeso.

***

Non appena sento dei passi vicino al mio nascondiglio improvvisato rizzo le orecchie come un segugio per cercare di capire chi si stia avvicinando a me.

Non appena vedo le scarpe consumate e i pantaloni sfilacciati tiro un sospiro di sollievo e mi alzo in piedi, ma con mia grande sorpresa trovo davanti a me un bambino che avrà sì e no otto anni e si guarda attorno spaesato, con passo strascicato.

Gli poggio una mano sulla spalla e lui, che non mi aveva notato, sobbalza, per poi arrossire vistosamente, un po' per la timidezza, un po' per la paura che non fa altro che attanagliare e offuscare le menti dell'uomo.

«Come ti chiami?» gli chiedo, abbassandomi alla sua altezza per poterlo guardare meglio negli occhi e infondergli coraggio.

Il bambino non risponde, e prima che possa scappare via lo prendo per il polso e lo trattengo.

«Non devi avere paura, sono come te. Un Ebreo» gli spiego, regalandogli un sorriso tirato e cercando di abbassare il più possibile il tono di voce per evitare di essere sentito da qualche marionetta.

«Ma... ma... non hai la stella di David» nota confuso, balbettando per il terrore.

«Allora la lingua ce l'hai!» constato, ripetendogli la stessa battuta che mi aveva fatto Alexander quella fatidica sera nel bosco gelido e tenebroso.

«Comunque sia, un mio amico è stato ferito, e per farlo medicare io e un mio compagno siamo stati costretti a nascondere la nostra identità» gli spiego, mentre il bambino, chiuso nelle sue spalle, continua a tremare.

Non appena riacquista un po' di fiducia mi dice il suo nome: Zeev.

«D'accordo, Zeev, cosa ci fai qui tutto solo?» gli chiedo, spostando la presa dal suo polso alla sua mano: mi sono sempre piaciuti i bambini, e vuoi per la famiglia allargata, vuoi per la guerra, ho sviluppato questo spirito fraterno.

«Mamma è morta qualche giorno fa di parto e... e papà è stato portato via dai soldati» mi spiega triste, mentre qualche lacrima inizia a rigargli le guance.

«Ascolta Zeev, devi dirmi dove è stato portato papà» lo sprono, vedendo nella sua situazione uno spiraglio di luce nel ritrovamento di mio padre.

«Io... io non lo so. Lo stavo cercando» mi risponde sconfitto, e decido di non fargli ulteriori pressioni per evitare di metterlo a disagio e fargli rievocare brutti ricordi.

«Ascolta Zeev, io vivo con altri bambini come te in una casa nel bosco. Lì potrai essere al sicuro, giocare con tanti ragazzi della tua età e leggere quanto vuoi. Vuoi venire con me?» gli chiedo, e lui annuisce con una malcelata gioia.

So che non è di mia competenza, ma sono sicuro che Alexander sarebbe fiero della mia iniziativa e non avrebbe esitato, se fosse stato al mio posto, ad accogliere quel ragazzino nel rifugio.

«Ora ascolta, - gli dico- il mio amico è stato fermato da un nazista. Stiamo andando a cercare il padrone della casa in un ospedale.»

Lui annuisce, e con me sbircia dall'angoletto dietro il quale ci siamo nascosti per vedere a che punto sia Aaron con il nazista.

Quando non lo trovo più ho un tuffo al cuore.

Inizio a imprecare, guardandomi attorno alla ricerca del mio amico.

«Aaron, dove sei?» mi chiedo, scivolando lungo il muro e portandomi le mani sul volto per coprire le lacrime che scendono copiose lungo le guance.

«È morto» mi dice alla mia sinistra una voce maschile.

Sobbalzo, e, quando mi volto, trovo Aaron che, con le braccia attorno alla sua vita, sembra pronto a sganasciarsi dalle risate.

Mi alzo lentamente con i pugni chiusi, e nemmeno il mio respiro profondo riesce a farmi tranquillizzare.

«Ma quanto sei stupido da uno a dieci?» gli chiedo, alzando progressivamente il tono di voce, mentre continuo a piangere.

Lui ride di gusto, ma si blocca quando inaspettatamente lo rinchiudo in un forte abbraccio.

La solitudine mi ha già dato tanto, e non voglio ricadere nel suo baratro: chi lo sa, mentre un tempo ne uscivo fortificato, questa volta sarei potuto uscirne destabilizzato.

«E lui chi è?» mi chiede Aaron riferendosi al bambino al mio fianco, quando finalmente lo lascio libero.

«Si chiama Zeev. Ci siamo incontrati poco fa, e ho deciso che verrà a vivere con noi» gli spiego.

Aaron sulle prime rimane confuso per questa mia "presa di potere", ma decide di non obiettare per rispetto nei confronti di quel bambino che appare tanto indifeso.

«Dobbiamo trovare Alexander» mi dice Aaron, e io non posso fare altro che essere d'accordo con lui.

Gli illustro la strada che mi era stata precedentemente spiegata, ma prima di avviarci mi rivolgo nuovamente a Zeev.

«Ascolta, piccolo, mi hai detto che tua madre è morta di parto. Il bambino?» gli chiedo, prendendolo per le spalle.

«È stato portato via insieme a papà dai soldati. Io ero andato a cercare dei fiori per la mamma e mi sono nascosto dietro alla mia casa» mi spiega, e a quelle parole non posso fare altro che compatirlo e provare ancor più ribrezzo verso questa società che se la prende con uomini, donne e, addirittura, bambini indifesi per un tornaconto personale.

«Un'ultima cosa. È un problema se ti togli la giacca? Qualche tedesco potrebbe sorprenderci e non vogliamo essere scoperti, non è vero?» gli chiedo, e lui annuisce per poi buttare a terra il suo giaccone pesante.

Nel tragitto verso la Krankenhäus Aaron accenna a come ha fatto a scappare dal soldato, al nome che ha ideato e a come, prima che il Tedesco gli desse uno schiaffo, sia stato costretto a pronunciare il fatidico Heil Hitler.

«La prima cosa che ho fatto dopo essere scappato dal soldato è stato sputare a terra. Non si dicono certe blasfemie» ci ha detto, e io e Zeev non abbiamo potuto fare altro che metterci a ridere di gusto mentre Aaron agitava il dito indice in aria come una maestra che rimbecca i propri alunni.

Aaron mi prende in disparte e, in totale segretezza, mi chiede: «perché hai voluto prenderlo con noi? Non ti biasimo, ma è una grande responsabilità.»

«Perché mi rispecchio in lui, nella sua solitudine e nella sua ingenuità. E anche perché non sai quanto ogni giorno mi penta sempre di più di non aver portato con me i miei fratelli» gli spiego.

Lui mi guarda con compassione e mi rassicura.

«Non potevi sapere che avresti avuto una simile fortuna, voglio dire di incontrare Alexander. Sarebbe stato un grande impegno, e prevenire è meglio che curare.»

Siamo arrivati davanti alla Krankenhäus.

Io e Aaron ci guardiamo, e io prendo coraggio per poi entrare, nella speranza che questo sia l'ospedale giusto.

La solitudine mi ha dato tanto, e tutti i miei giorni trascorsi a fuggire e a diventare adulto sono stati ampiamente ripagati dall'altruismo di un solo uomo.
Spero solo che il protagonista del mio discorso possa continuare a fare del bene a tanti altri ragazzini nelle nostre condizioni e a rallegrare le nostre giornate con i suoi aneddoti e i suoi caldi sorrisi.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now