Capitolo 65

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SETTIMANA DELLA MEMORIA
Frase del giorno: è successo in Germania; ma le stesse cellule malate si trovano nel corpo di ogni nazione, pronte a entrare in attività.
(Charlie Chaplin)

La porta viene spalancata violentemente, destando la mia attenzione e svegliandomi bruscamente.

«Forza, alzatevi!» strilla una voce maschile.

Tutti si svegliano, e la baracca prende vita: cerco di sporgermi dal letto a castello, e vedo un uomo in divisa circondato da un pallido sole che sta sorgendo.

«Buongiorno Uri, come stai?» mi chiede premuroso Friedrich, sedendosi lasciando penzolare le gambe.

«Leggermente meglio. Non era il massimo della comodità, ma finalmente sono riuscito veramente a prendere sonno» gli spiego, tenendo la schiena curva per evitare di sforzarla.

Dopo pochi minuti, tutti gli uomini della baracca iniziano ad uscire uno dopo l'altro.

Io e Friedrich, straniti, scendiamo dal letto, indossando gli zoccoli.

Usciti, l'atmosfera ci getta nello sconforto: tanti fiocchi di neve devono essersi radunati questa notte sul terreno ghiacciato, creando un unico manto uniforme, e la temperatura è insopportabile.

«Su, mettetevi in ordine» dice una SS, e dopo poco inizia quello che si rivela essere un appello.

Seguendo la massa, io e Friedrich arriviamo ai bagni comuni, e rimaniamo scandalizzati dalle condizioni igieniche: i bagni sono piccoli loculi sporchi dove tutti si radunano, e la sporcizia la fa da padrona.

Chissà se la situazione ad Auschwitz è diversa, mi chiedo: avranno sicuramente radunato le donne, i bambini e gli anziani per dargli un'attenzione maggiore.

«Ma qui non si mangia?» chiedo a Friedrich, sentendo un improvviso senso di fame.

«A quanto pare risparmiano su un bel po' di cose. Nell'addestramento militare invece non si risparmiavano nulla: bottiglie di cognac, sigarette importate e donne venivano scambiate con molta facilità» mi spiega.

Siamo una coppia un po' surreale: il povero ebreo sventurato e l'oscuro tedesco.

«E a te non piaceva quella vita?» gli chiedo, sistemandomi al meglio il pigiama stropicciato e pieno di macchie.

«Sai, Uri. Nell'esercito si vociferava qualcosa. Tutti dicevano che Hitler aveva in mente dei nuovi ruoli che potessero aumentare il numero di occupazioni, ma non molti sapevano in cosa consistesse il suo piano» mi spiega, indicando il posto in cui siamo finiti, per poi riprendere il discorso.

«Io ho aderito al partito nazionalsocialista. L'ho fatto, perché approvavo alcune idee di Hitler. Credevo fosse necessario affermare un regime che potesse governare coscienziosamente la Germania, ma ha avuto la genialata di invadere la Polonia. Se avesse rispettato l'accordo con la Gran Bretagna forse non sarebbe successo niente» conclude.

«Io purtroppo ho avuto aggiornamenti sporadici sulla situazione. Ci sono speranze per un armistizio?» chiedo, iniziando a muovermi verso la baracca.

«Non credo proprio, mio giovane amico. La Francia è stata occupata. Si vocifera che altri stati stiano prendendo parte. In ogni caso, quando ho compreso che le idee di Hitler andavano ben oltre il campo di battaglia ho ritenuto conveniente ritirarmi. Ho cercato di attraversare il fronte, ma sono stato beccato. Un mio amico mi aveva procurato documenti falsi, ma l'assenza del timbro mi ha fregato. Quindi eccomi qua» continua a spiegarmi con finto emtusiasmo.

«Su, in fabbrica» strilla un kapò, attirando la nostra attenzione.

Così, ancora una volta siamo costretti a seguire la massa di uomini che si dirige verso un edificio grigio, come del resto le baracche di questo campo.

La neve scricchiola sotto i nostri zoccoli, e piccoli fiocchi ricominciano a cadere sui nostri capi nudi, sciogliendosi in maniera celere.

«E ora cos'altro vorranno farci fare?» mi domando, torturandomi le mani.

«Non ne ho idea. Ormai sono preparato a tutto» risponde il mio amico, mettendomi una mano sulla schiena per invitarmi a entrare.

Sussulto al tocco, e lui si scusa.

Guardando gli uomini che lavorano faticosamente, mi dico ormai che nient'altro nella mia vita, se ne avrò una, potrà stupirmi.

Sotto i colpi dei kapò e il fumo asfissiante, un uomo ci dice che la fabbrica di Buna-Werke produce annualmente tonnellate di gomma e carbone.

«Hanno creato un campo di lavoro sotto gli occhi di tutti, ma nessuno si è accorto di questo, neanche gli stessi soldati» osserva Friedrich, passando una mano sul volto sonnecchiante.

Non sappiamo di cosa occuparci, ma un kapò non esita a farci capire quale sia il nostro posto.

Con violenza e qualche colpo di troppo, veniamo portati davanti ad un bancone, dove dei compagni ci illustrano il lavoro che dobbiamo portare avanti.

Con estrema gentilezza qualcuno ci copre, mentre osserviamo attentamente i loro movimenti.

Non sarebbe neanche faticoso, se non fosse per il fatto che il fumo è insopportabile, e si insinua nei nostri polmoni con veemenza.

Nella nostra giornata apprendiamo che la zuppa annacquata della sera, insieme a un pezzo di pane raffermo, vale più di quanto si possa immaginare, perché è l'unico cibo che ci viene offerto in tutta la giornata.

Con gli spostamenti, l'odore acre e le pressioni che le guardie ci mettono, la voglia di acqua e di un pasto caldo si fa impellente.

Veniamo sottoposti a ritmi insopportabili, e raramente viene concesso di andare in bagno.

Inoltre, i servizi igienici e i piatti comuni consentono la diffusione di virus e infezioni in tutto il campo.

Si vocifera che qualcuno abbia un'infezione alla prostata: non so chi sia, ma i racconti allucinanti sui suoi dolori e l'impossibilità di andare regolarmente in bagno fa accapponare la pelle.

Le conversazioni tra i lavoratori vengono spesso interrotte dall'arrivo di qualche kapò, che ha il compito di supervisionare i lavori.

In questo modo, in poco tempo vengo messo al corrente delle regole di Monowitz, apprendendo il ritmo al quale chiunque è sottoposto:
1. il cibo non fortifica, il lavoro sì;
2. bisogna mantenere alto l'onore dei Tedeschi. Siamo in Alta Slesia, e questa ormai è terra ariana;
3. meno si beve, più basso è il rischio di contrarre qualche malattia. L'acqua non è sufficientemente depurata.

Dopo una giornata stressante, finalmente io e Friedrich possiamo tornare in baracca.

Ci radunano nella piazza dell'appello per assicurarsi che tutti siano presenti, e le persone decedute in circostanze misteriose vengono a mano a mano spuntate.

Mentre ci pregustiamo una bella dormita, un signore dalla carnagione scura, mulatto, mi ferma.

«Scusami, sei Almeda?» mi chiede, bloccandomi la strada.

Annuisco confuso, e lui sorride.

«Sei figlio di Giuseppe Almeda?» mi chiede.

Mi fermo pietrificato.

Quel signore deve conoscere mio padre.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now