Capitolo 41

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Siamo in pieno settembre, e la vita nel nostro appartamento procede con una certa regolarità.

Io, Malka e Sarah ci siamo raramente affacciati alla finestra per questioni di sicurezza, nonostante la vista della strada ci abbia più di una volta tentato.

La palazzina dà direttamente su una strada trafficata, dove i bambini, quando non c'è il coprifuoco, si divertono a colpirsi vicendevolmente con le fionde, a inseguire un vecchio pallone e a rincorrersi.

Noi sentiamo a malapena gli schiamazzi, occupati come siamo a muoverci con la massima discrezione: è faticoso far finta che la casa sia disabitata, ma non ce la stiamo cavando male, se non fosse per i pericolosi rumori emessi dal bimbo, che non fa altro che ridere, sghignazzare e piangere.

Temo che i vicini abbiano captato qualche movimento sospetto, ma fortunatamente al momento nessuno è venuto a bussare alla porta.

Le poche informazioni sul vicinato e la situazione politica ci arrivano da Anja, che puntualmente viene la sera a farci visita con le mani che non sono mai vuote: cibo, vestiti, asciugamani, qualunque cosa ci serva lei non ce la fa mai mancare, e in più di un' occasione le ho mostrato il mio disappunto per la fine che fa la sua misera paghetta.

"Lo faccio con piacere" mi risponde puntualmente con uno sguardo tagliente.

Già, perché ancora non siamo riusciti ad appianare le nostre divergenze: lei si ostina a darci soccorso quando potrebbe riposarsi nella sua casa, spartire le sue ore di riposo con il fratello e la famiglia, acquistare prelibatezze per sé nella drogheria o imbellettarsi per attrarre l'attenzione di qualche facoltoso coetaneo, e io la rimprovero per il tempo che continua a sprecare con un pezzente come me.

Inoltre, la presenza delle due donne nella mia vita rende i momenti di intimità pregni di imbarazzo, limitando così gli incontri furtivi che cerco prontamente di prevenire, scatenando un nuovo, fresco litigio.

Malka puntualmente scuote la testa rassegnata, facendomi provare ripensamenti e sensi di colpa.

Talvolta tuttavia questi sentimenti più profondi e infantili sono totalmente sostituiti dalla preoccupazione crescente per la condizione di Sarah.

Ogni mattina, quando la vedo debilitata, scossa da accessi di tosse e violente nausee, mi dico "ci siamo".

Tento di affrontare la situazione con positività, ma le parole Uri e ottimismo, come sempre, cozzano quando si ritrovano a convivere costrette in una stessa frase.

Vedo Malka seduta in cucina, mentre Sarah riposa in camera con Michael (tra i due, è il nome che preferisco), e mi avvicino a lei, accomodandomi sulla sedia in legno che alzo silenziosamente.

«Non ti corichi con lei?» le chiedo, appoggiandomi con nonchalance sul tavolo, con un braccio piegato e uno pronto a sorreggere il mio mento con il gomito ben posizionato.

I miei sussurri sono appena udibili, e spero che Malka abbia capito la mia frase, dato che guarda con aria assente la finestra sbarrata dietro di me.

Passano secondi interminabili in cui il silenzio, ancora una volta, la fa da padrone.

È in momenti come questo (e di certo non sono pochi) che quasi mi sembra di percepire il fruscio degli alberi nel bosco attorno al rifugio, e di riflesso gli schiamazzi degli orfanelli che si divertono, le loro urla giocose e altrettanto pericolose, e i rimproveri di Alexander che tenta a tutti i costi di preservare la loro incolumità.

Non posso rimanere fermo, ozioso, senza fare nulla di costruttivo, parlare o tenermi attivo, perché i ricordi riaffiorano velocemente come tante arme taglienti, soffocandomi e sopraffacendomi.

La voce appena udibile di Malka, a tal proposito, mi salva dall'ondata di pensieri letali che, tuttavia, lasciano un'impronta sanguinosa dentro di me.

«Non posso starle vicina, caro, vorrei, ma non posso. Quando la guardo, le parlo o la sfioro quasi non la riconosco. Ha sempre quella voglia di fare contagiosa, ma sono sua madre, e percepisco ciò che pensa: il progredire della malattia, le speranze di salvezza che, nella nostra situazione, stanno andando a farsi benedire, e dulcis in fundo il terrore che prova verso il senso di... di..., oh, non ci riesco, rabbrividisco al solo pensiero» mi spiega, non riuscendo a pronunciare quella parola carica della negatività che abbonda nei nostri cuori.

Un singhiozzo le spezza la voce, e io non posso fare nient'altro che poggiare la mia mano sulla sua, trasmettendole un flebile calore.

Non piango: la stanchezza, gli eventi che si rincorrono l'uno dopo l'altro in un vortice di miseria, terrore e perdite mi destabilizzano a tal punto che non riesco a lasciarmi andare come vorrei, come ho sempre fatto.

«Fai tesoro di tutti i momenti che vi restano. Magari dandole conforto e facendola distrarre riuscirai anche te a trovare la pace che meriti» le dico.

Lei mi sorride con riconoscenza, si alza, mi dà un bacio sulla fronte con fare materno e si dirige nella camera da letto.

Io rimango solo nella stanzetta.

Nel momento stesso in cui i ricordi ricominciano ad assalirmi vertiginosamente mi alzo di scatto, schiaffeggiandomi la fronte per il rumore prodotto dalla sedia sul parquet, e mi dico che è ora di smetterla di rimuginare sul passato.

Vado nella mia stanza, prendo il berretto per ripararmi dal sole cocente, e metto in un taschino della salopette le chiavi di casa.

Sei uno sciocco, Uri. È pieno pomeriggio, l'intera Berlino è vigile e sveglia, così come i tuoi graziosi vicini di casa. Cosa pensi di fare, maledetto combinaguai? mi rimbecca la mia coscienza, e il Saul che per troppo tempo è rimasto sepolto in qualche cassettino della mia memoria mette a tacere quella vocina.

Mentre apro la porta, questa viene prontamente richiusa.

«Cosa fai, Uri? Sei impazzito? Ci scopriranno!» mi rimprovera Sarah, dandomi uno scappellotto che lascia la mia nuca leggermente indolenzita.

«Voglio uscire. Devo fare delle cose che mi ossessionano da troppo tempo» le dico tentando di riaprire la porta, ma la sua mano prontamente me lo impedisce.

«Vuol dire che sbrigheremo queste commissioni insieme. Non sei l'unico che ha bisogno di respirare dell'aria fresca o di ritrovare i propri cari, Uri. Smettila di comportarti come un egoista» mi rimprovera, entrando prontamente nella mia testa e capendo rapidamente le mie intenzioni.

«Tu non verrai dai nessuna parte. È pericoloso» le dico, interrompendo i suoi pensieri folli.

«Lo stesso vale per te. Se pensi che ti lascerò fare una pazzia del genere allora non mi conosci. Sei instabile, amico mio, totalmente incosciente. Per lo meno standoti vicina, se proprio non vuoi rimanere dentro casa al sicuro, potrò stare più tranquilla, e impedirti di fare qualche stupidaggine» insiste.

«Sarah, è così che Shimon ha perso la vita, seguendo le mie imprese incaute! Ti cercava sopraffatto dalla passione, ed è morto lentamente con sofferenza!» le urlo, pentendomi subito dopo del tono di voce, estremamente alto, che ho usato.

I suoi occhi si riempiono di lacrime, e prima che caschi a terra riesco prontamente a sorreggerla.

Tra le mie braccia singhiozza con vigore, senza riuscire a sorreggersi.

La porto sul divano, pregando che questo rapido svenimento non sia il segnale di qualcosa di più grave.

Guarda cosa fai, Uri, uccidi tutti coloro che ti stanno accanto. Li pungi come una pianta velenosa, e spargi desolazione.

È in questo momento che mi dico che questo gioco di facce, di Uri e Saul, del buono e il cattivo deve finire.

Tenterò con tutte le forze di far prevalere la ragione sull'istinto.

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