Capitolo 9

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Mi ricordo quanto avessi paura stando nella piccola vasca da bagno della vecchia casa.

Non fraintendetemi, non era l'acqua a mettermi soggezione, ma quel tappo che mia madre minacciava di togliere se non mi fossi insaponato per bene; avevo paura che tutto intorno a me potesse essere risucchiato da un semplice scarico, compresa mia madre: ora penso a quanto sarebbe stato più semplice se effettivamente ci avesse inghiottiti.

È buffo pensare a come quelle che da piccoli erano solo preoccupazioni ora si siano trasformate in vivide speranze, a quanto alla banalità delle ingenue paure si siano sostituite angosce troppo grandi per poter essere sopportate da un ragazzo poco più che quindicenne.

Se mia madre avesse avuto più coraggio e patriottismo probabilmente ora non sarei qui, quel nazista non si sarebbe avvicinato al rifugio e io non avrei portato così tanti impicci ai ragazzi che in questo momento sono in attesa di nostre notizie, ma lei evidentemente si è fatta fagocitare dal Partito Nazionalsocialista.

La vasca deve aver risucchiato il suo buon senso e la sua vitalità.


***

«Cosa facciamo?» mi chiede Aaron che, con le lacrime agli occhi, esamina la ferita di Alexander: è stata provocata da un colpo di fucile che ha trapassato la scapola, evidentemente è stato colpito di spalle, a tradimento.

Nonostante la posizione del proiettile non sia delle più preoccupanti, la fuoriuscita di sangue lo è: lui è prono, senza sensi, con il capo rivolto verso sinistra, e possiamo distinguere nitidamente la ferita della spalla, quella seria, da piccoli graffi lungo le braccia, causati probabilmente dalla caduta.

«Non lo so» gli rispondo, preoccupato.
So solo che questo uomo che mi ha dato tanto non morirà dissanguato, nonostante non abbia né le abilità, né i mezzi per salvarlo.

«Bisogna estrarre la pallottola al più presto» ragiona, continuando a toccare la ferita.

Oramai ha le dita insanguinate, ma a giudicare dalla sua espressione non credo se ne preoccupi.

«Dobbiamo trovare un medico» dico io, e Aaron mi guarda come se avessi appena detto una delle stupidaggini più colossali del secolo.

«E sentiamo, da chi vorresti andare? Da qualche Tedesco? Ah no, ci sono! Dal medico di Hitler in persona!» mi risponde in tono beffardo, facendo una risatina nervosa per cercare di nascondere la sua preoccupazione.

Continuiamo a ragionare per conto nostro, ma la fretta di far curare questo povero anziano che giace esanime ai nostri piedi non è sicuramente di grande aiuto.

E poi ecco, mi viene un'illuminazione, qui, in questa notte gelida nel bosco pieno di presagi sinistri, parole al vento e fruscii.

Ripenso a quanto il rimorso per non essere riuscito a far sentire la mia voce e ad andare contro le insulse leggi naziste mi abbia attanagliato nelle ultime settimane, e così prendo una decisione che si rivelerà fatale, quasi mortale.

«Aaron, dammi il cappotto» gli dico, mentre intanto mi sfilo il mio.

«Cosa, perché?» mi chiede perplesso, stringendosi nella sua giacca.

«Tu dammela» insisto, tendendogli la mano.

Lui esegue i miei ordini, riscaldandosi le braccia con le mani per il freddo pungente.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora