Capitolo 52

61 8 8
                                    

«Amos, prendi il tuo cappottino» dico a mio fratello, mentre frettolosamente raccattiamo gli ultimi oggetti che abbiamo a disposizione.

Ho deliberatamente vietato di prendere oggetti di valore, e Malka stessa, poverina, è stata costretta a lasciare in casa la sua fede.

Nel passaggio dalla mia accogliente abitazione alle mura solide e cupe del ghetto, i nostri beni più costosi sono finiti nelle tasche dei Tedeschi, e voglio necessariamente evitare che questo si ripeta.

Qui tutti indossiamo strati pesanti di abiti: le temperature sono vertiginosamente scese, e d'altro canto non abbiamo borse di stoffa entro le quali porre gli indumenti.

«Uri, non riesco a muovermi!» si lamenta Amos, mentre lo costringo a indossare la giacca accuratamente lavata con cui è arrivato dal ghetto.

«Fuori fa freddo» gli dico categorico, mentre mi concentro, quasi sentendo l'alito dei tre uomini sulla mia spalla.

«Dove andiamo? Qui mi piace! Anche mamma può rimanere. E quel soldato è un nostro amico» insiste Amos.

Vorrei dirgli che mi sono assolutamente pentito di avergli detto quella bugia a fin di bene, che quel viscido uomo approfitta di nostra madre quando lei non ha mezzi per potersi difendere, che ormai non aspettano altro che farci fuori, che questo viaggio non promette nulla di buono, e che il nostro sogno è finito.

Siamo usciti dal nostro letto caldo, dai lussi, dagli sfarzi, dalla grazia di Dio.

Tuttavia, mi limito a rimanere in silenzio, non avendo la voglia e né tantomeno il tempo materiale per alzare la voce.

Guardo negli armadi, e aprendo i cassetti noto nel comodino un pezzo di carta rigorosamente chiuso: è la lettera di Anja.

Mi ritorna in mente il suo viso, la disperazione che ha provato quando l'ho guardata con rimprovero, ma anche le nostre chiacchierate nell'Ospedale, l'amicizia che ha instaurato con Sarah, i nostri baci rubati e il suo sguardo materno.

Prendo la lettera con mano tremante: non sono certo che abbia volutamente rivelato delle informazioni delicate al padre, e sono sicuro che il suo obiettivo fosse quello di proteggere tutti noi.

La porto nel cappotto, all'altezza del petto, vicino al cuore.

«Muovetevi!» strillano le canaglie.

«Su Amos, andiamo» dico, prendendo per mano mio fratello.

Guardo la stanza per un'ultima volta, sorridendo al poster e ai vasi colorati, ma anche alle finestre sbarrate.

Malka, uscendo dalla sua camera con Sarah, mi guarda con determinazione.

Sarah è a pezzi: piange, sfiora le pareti, e quasi sembra che voglia trattenere delle tracce per sé, sotto le unghie.

Ci uniamo in un abbraccio, mentre Amos, disorientato, mi stringe la mano con preoccupazione.

Mi volto a guardarlo, ed è tutto un gioco di sguardi: la sua espressione, da serena e positiva, si tramuta in sconsolata e turbata, mentre io mi accorgo di star piangendo.

Penso ancora ad Anja, a lei che mi dice di non piangere, di lasciarmi il passato alle spalle e di guardare con ottimismo al futuro, come faceva Pollyanna, sola, senza padre né madre, nelle mani di una zia scorbutica e di semplici ricordi.

Tuttavia, il pianto non si placa, e coinvolge anche Amos.

«Non piangere, fratellino mio. Va tutto bene» gli dico, abbracciandolo.

Dopo poco, le sue braccia smettono di fare presa saldamente sulle mie spalle, perché una delle SS lo prende con forza per il colletto del cappotto.

«Lasciatelo stare! Prendete me!» strillo, ma continua a trascinarsi dietro Amos, che scalcia.

Dopo poco, la sua figura sparisce dietro la porta.

Cerco di correre da lui, strillando imprecazioni, ma Albert mi strattona per un braccio, colpendomi tra le scapole con il calcio del fucile, e facendomi cadere a terra.

«Uri!» strilla Malka, mentre Sarah continua a piangere disperatamente: il suo viso è talmente pallido che temo possa svenire da un momento all'altro.

Il colpo è stato talmente forte che continuo a tossire, ma non voglio dare a quel codardo la soddisfazione di vedermi patire per i dolori a terra.

In un atto di follia e sadica soddisfazione, gli rido in faccia, e la mia bocca inizia a muoversi da sola.

«אתה שולל אם אתה חושב שההיטלר שלך
יגמול לך, הממזר שלך. אתה בובה מסכנה»

«Sei un illuso se pensi che il tuo Hitler ti ricompenserà, bastardo. Sei solo una misera marionetta» dico in ebraico, e la soddisfazione di aver nuovamente parlato la mia lingua madre mi travolge.

Mi guarda non capendo, ma non serve che io traduca perché un altro cazzotto mi arrivi in faccia.

Dalla sua espressione temo che mi massacrerà, ma sorprendentemente non lo fa.

«Ha portato tuo fratello giù. Vi aspetta un camion. Date a me i vostri oggetti» dice il collega con finta cortesia, mentre Albert ci spinge giù per le scale.

Mentre usciamo dall'edificio, accompagnati dagli insulti sprezzanti dei soldati, un inquilino sputa a terra, mentre la vecchietta del primo piano si porta una mano al cuore.

Mi soffermo a guardarla mentre esco, volgendo la testa con sguardo implorante verso di lei.

Mi ricorda tanto la signora per cui mia madre lavorava, e non posso non pensare che forse, se le circostanze fossero state diverse, anche lei ci avrebbe lanciato leccornie piuttosto che insulti o schizzi di saliva.

Ti senti impotente, lo vedo. Vedo come preghi il tuo Dio, continuando a tenere sotto controllo il tuo battito cardiaco. Vorresti aiutarci, vorresti curare il mio occhio sicuramente violaceo e la ferita sullo zigomo che perde sangue.

Vorresti bloccare i soldati mentre quasi staccano il braccio di quella ragazza, forse pensando che anche tuo figlio, in tempi di guerra, ha perso tutti i princìpi che gli hai insegnato dall'infanzia in poi.

Tuttavia, sai che non puoi fare niente, se non chiudere vigliaccamente la porta della tua casa sicura per evitare di apparire troppo indiscreta o interessata: non vuoi disturbare questo abominio a cui stai assistendo.

E cosa mi dici te, Tedesco, vicino di casa, che continui a sputare a terra da quando siamo usciti, da quando ci hanno beccato?
Non hai esaurito le tue scorte di saliva? Non hai la bocca secca? E lo zerbino? Non è eccessivamente umidiccio?

Tranquillo, vicino di casa, non sono contagioso! Sono Ebreo, sì, e non posso né tantomeno voglio curarmi, ma sono innocuo, lo giuro!

Esco definitivamente dal palazzo, e mi ricongiungo con Amos.

Lo osservo, sperando che abbia ignorato le parole pesanti di quel maleducato, e assicurandomi che sia "integro": sospiro rassicurato quando noto che non ha neanche un graffio.

Guardo la carrozza con i cocchi che ci è stata assegnata: è un bellissimo esemplare di camion tedesco con una tenda a coprire il contenuto.

Lo aprono, e tante persone ammucchiate si schermano il volto dalla luce.

«Uri, non voglio salirci» si lamenta Amos.

Notando l'espressione dura di Albert, decido di rassicurarlo, sapendo di non avere nessuna via di fuga.

«Non essere scortese, Amos. Guarda quante persone vogliono fare amicizia con noi!» lo incoraggio, per poi prenderlo in braccio e farlo salire prima che qualcuno lo strattoni.




In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now