Capitolo 14

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Apro gli occhi molto lentamente, richiudendoli per l'improvviso contatto con la luce.

Mi stiracchio nel mio letto caldo con le lenzuola imbottite, muovendo in maniera confusa le braccia e le gambe, meno intorpidite rispetto ai giorni passati.

Riprovo ad aprire gli occhi, questa volta con successo, e solo dopo qualche minuto mi rendo conto di dove mi trovo: sono nella mia stanza, in un letto che non è più fatto di rami e foglie, ma ha un materasso morbido di cui le mie povere membra avevano proprio bisogno.

Mi alzo lentamente, sentendo il mio stomaco che brontola rumorosamente, e controllo l'abitacolo: Aaron è passato dalla camera dei più grandi alla nostra, stanco di Shimon che, pur di non condividere pochi metri quadrati con me, era disposto a dividere il letto con gli altri compagni.

Il ragazzo dorme nel letto sotto al mio, mentre quello di Zehava è vuoto, rifatto.

Inizio a chiedermi che ora sia, così decido di lasciare il mio pezzo di paradiso per raggiungere gli altri ragazzi che ieri sera si sono presi un gran bello spavento dopo aver visto l'uomo nell'uniforme nazista.

Nel grande salone vedo i bambini che, festosi, si sono radunati attorno alla lampada dagli otto lumi che, presumibilmente, verrà accesa questa sera: devo aver realmente perso la cognizione del tempo per essermi scordato del fatto che il Chanukkà è alle porte!

«Buongiorno» dico sbadigliando rumorosamente, e i ragazzi, non appena mi vedono, mi corrono incontro festosi, grandi o piccoli che siano, abbracciandomi calorosamente: Shimon continua a rimirare la lampada con sguardo malinconico, facendo finta di non essersi accorto di niente.

«A cosa devo questo amore?» chiedo con un sorriso sincero, guardandoli uno a uno negli occhi.

«Hai salvato Alexander» risponde Orly con la sua vocina acuta, abbracciandomi calorosamente.

«Non ce l'avrei mai fatta senza l'aiuto di Aaron» confesso, e tutti i ragazzi hanno l'idea geniale di correre da lui per riversargli le stesse attenzioni che mi hanno dedicato; i grandi cercano di trattenerli per evitare che l'amico possa subire uno shock, senza successo.

Anche il nostro nuovo amico si è inserito nella comunità, e questa notte deve aver dormito nella rimessa, in attesa di un letto stabile: immagino che, dopo tutto quello che ha subito, la solitudine e il buio fossero le sue ultime preoccupazioni.

Sento i passi della massa che va nella mia camera, e subito dopo lo strillo di un ragazzo che viene assalito da tanti ragazzi.

Shimon è ancora nel salotto, mentre Alexander deve trovarsi nel giardino.

Mi avvicino al ragazzo, con il desiderio di chiarire una volta per tutte.

«Possiamo parlare?» gli chiedo cautamente.

«Dici a me?» mi risponde senza voltarsi.

«No, alla lampada» rispondo ironicamente, mettendomi davanti a lui.

Mi fa un cenno con il capo sporgendo il mento, con le braccia conserte che manifestano la sua attesa e la sua irritazione.

«Posso sapere cosa ti ho fatto?» gli chiedo, al limite della pazienza, mentre la voce mi aumenta di un'ottava: la scusa della stanza in cui mi ha visto il primo giorno dove è morto il fratellino di certo non regge più.

«Non so di cosa tu stia parlando» mi dice tentando di afferrare la lampada, ma io lo blocco.

«Lo sai benissimo. È da quando sono arrivato che mi tratti con sufficienza. Non ti sei presentato, non mi saluti mai e mi guardi dall'alto in basso. Che ti prende, amico?» gli rispondo.

«Sono il fratello gemello di Sarah» mi confida, e a quelle parole il mio cuore perde un battito.

«Qu... quella Sarah?»
Fantastico, ci mancava solo che iniziassi a balbettare.

«Sì, quella. Ti ho visto tante volte, e non mi sei mai piaciuto. Le hai spezzato il cuore» mi spiega, e io vado subito sulla difensiva.

«È lei che ha smesso di frequentarmi senza un apparente motivo. Io avevo una cotta per lei sin da quando l'ho vista a dieci anni di età mentre addentava quella safra e con l'altra mano si teneva al manubrio della bicicletta.»

«Sì, ma le hai rivolto delle parole pesanti. Io sono sempre stato geloso di lei, e ogni tanto, quando tornavo dalla panetteria in cui nostra madre lavorava, vi vedevo. Ormai per lei c'eri solo te, il suo fratellino con cui giocava non esisteva più» mi risponde, puntandomi un dito contro.

«È infantile da parte tua parlare di vecchie gelosie, non credi?» gli chiedo.

«Penso che non sia il massimo essere rimpiazzato da un fidanzatino che dopo anni insulta pesantemente una ragazza malata di tumore!» mi risponde al limite della pazienza, e a quelle parole sussulto.

Sarah, la mia Sarah, quella dai capelli neri e gli occhi chiari, dalle lentiggini appena accennate sulle gote pallide e la bocca perennemente allargata in un sorriso vispo, non ha mai, neanche per un effimero secondo, pensato di tradirmi: voleva togliermi un dolore con una sofferenza meno pesante.

«È... è morta?» gli chiedo con le lacrime che minacciano di scendere a flutti.

«Ci penso ogni santo giorno. L'abbiamo portata al sicuro da un nostro amico l'anno scorso, e poche settimane dopo erano entrambi spariti» mi spiega.

«Allora c'è la speranza che sia ancora viva! Dobbiamo cercarli, magari sono scappati in un luogo più sicuro, o magari sono...» cerco di dire, ma lui mi blocca.

«Era troppo destabilizzata» ammette, chinando il capo.

Io però non mi lascio abbattere, anzi, penso di aver sorprendentemente trovato un compagno per le mie ricerche.

Oh, Dio, perché la tua furia si abbatte ferocemente su noi Ebrei? Forse le nostre preghiere non ti saziano a sufficienza? La tua misericordia viene sempre meno. Ora ti chiedo solo un segno, una mano divina che possa aiutarci a ricongiungerci con i nostri cari, o saprò finalmente che anche tu, come tanti altri, mi hai abbandonato al destino che hai malvagiamente disegnato per me.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now