Capitolo 43

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Perso in questo crocevia di carri armati, soldati e stradine isolate mi risulta difficile a primo acchito recuperare il senso dell'orientamento, considerando in aggiunta che a ogni minimo spostamento provo il timore reverenziale di essere scoperto.

Sarebbe una fine alquanto stupida, mi dico, considerando quanti sforzi mi sia costata la lontananza dai miei dolci fratellini, la permanenza in un luogo che a primo impatto non mi risultava per nulla familiare e lo stato vegetativo in cui sono caduto all'interno dell'ospedale.

Il caldo asfissiante rende il mio respiro pesante e affannato, mentre i raggi del sole che penetrano in questo vicolo adiacente al grande vialone lambiscono la mia pelle, lasciando un lieve bruciore associato all'inevitabile rossore.

Guardo con attenzione i movimenti dei soldati come ho imparato da tempo a fare: questo è lo Uri previdente, quello che è rimasto adagiato malamente nella cava prodotta dall'esplosione di una mina quando ha sentito passi sospetti che si sono poi rivelati amichevoli e accoglienti, quello che è fuggito dal ghetto per evitare di rimanere vittima di una madre lasciva e assoggettata al controllo dei Tedeschi.

Ora che finalmente riesco a mostrarmi alla luce del sole i pensieri si fanno sempre più chiari, concisi e ragionevoli, e una miriade di domande si fa strada nella mia testa stanca e affaticata.

Vedrò anche mia madre? I miei fratelli staranno bene? Il prinz* continua a farla da padrone? Come farò uscire Yona e Amos? Le guardie mi riconosceranno fuori dalla recinzione, o riuscirò ancora una volta a farla franca?

Dubbi esistenziali rallentano notevolmente i miei spostamenti, mentre attendo che la strada si sgombri.

Ancora una volta, come quando dopo mesi sono uscito dall'ospedale, sento un senso di vertigini che mi assale, causandomi giramenti di testa e una fastidiosa pelle d'oca.

Spazi aperti, luce solare da ogni dove e questo vociare confuso mi fanno pensare che tutti gli occhi siano puntati su di me, come con un attore che si presenta in un teatro davanti a centinaia di spettatori curiosi.

Uri, stupiscimi, sembra dirmi la città di Berlino, e io non posso fare nient'altro che ordinare che le luci vengano accese e la rappresentazione cominci.

Non appena gli ultimi soldati superano il grande viale, riesco finalmente a correre in un'altra stradina che converge nella strada principale.

Non avendo messo piede fuori casa per settimane, il mio senso dell'orientamento è a dir poco arrugginito, e mi risulta difficile ricordarmi il percorso seguito dalla Krankenhaus fino al mio attuale appartamento, considerando il buio, la brezza fredda e la stanchezza di quella fatidica serata.

Continuo a disperarmi, fino a quando non riconosco un edificio che quella notte, sotto la luce timida della luna, velata da un sottile strato di nubi, mi aveva colpito: è un palazzo con un gusto tipicamente orientale, decorato da marmi e un tetto sinuoso.

Mi avvicino con cautela, ragionando: ma sì, è una sinagoga! mi dico.

Esamino il palazzo, e noto con disgusto che l'antico splendore dell'edificio è stato violato dai fucili, le scritte eretiche e la violenza delle SS.

Decido di non torturarmi ulteriormente: sono già destabilizzato, e una mia esitazione davanti alla sinagoga non farebbe nient'altro che attirare sguardi indiscreti.

Faccio qualche calcolo mentale, e torno in pochi minuti alla Krankenhaus, dove non oso entrare per il timore di vedere Anja e i soldati che, pur essendo feriti e ottenebrati, continuano a compiere il loro lavoro sotto l'ombra della svastica hitleriana.

Di qui la strada è piuttosto semplice, considerando il tragitto percorso dal bosco all'ospedale e al ghetto stesso.

Mi chiedo solo quanto tempo impiegherò per portare a termine il mio piano prima che il sole tramonti e la mia assenza getti Sarah e Malka nello sconforto totale.

In mezzo al sospiro del ventoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora