Capitolo 55

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Si sente un fischio, ed è questione di attimi perché il treno inizi a muoversi.

Abbandona la stazione Grunewald, emettendo un suono fastidioso sui binari.

Tuttavia, il cigolio si percepisce a stento: nel mio vagone le persone, inserite a pressione, non fanno altro che scambiarsi idee, confrontarsi, tentando di giungere a conclusioni plausibili.

Dove è diretto il treno?

Il tragitto sarà lungo e periglioso?

Ci saranno delle soste?

Quando potremo mangiare?

Queste sono le domande più comuni che le mie orecchie sensibili riescono a percepire.

Le gambe quasi non riescono a sorreggere il peso del busto, e di certo non ho intenzione di appoggiarmi a Malka e Sarah, in quanto la loro condizione, di certo, non è migliore della mia.

«Uri, ti senti bene?» mi chiede Sarah, poggiando la sua mano sulla mia spalla.

Faccio un lieve segno con il capo e le spalle, a indicare che qui, in questo momento, il mio stato di salute non fa differenza, e poggio la mia mano sulla sua.

Malka ci abbraccia teneramente, facendosi spazio tra le persone accumulate nel vagone.

Mi dico che, se la stagione fosse stata diversa e le temperature meno rigide, non sarebbe entrata abbastanza aria per tutti, e la calura sarebbe stata insopportabile.

Siamo ancora stretti in un abbraccio caldo e sincero, di cui tutti noi avevamo bisogno in una simile atmosfera.

Nel frattempo, bambini iniziano a piangere istericamente, e le mamme non possono fare nulla per consolarli.

Ma ciò che mi tocca di più è il singhiozzare di Sarah, il cui petto si muove ritmicamente: sono sicura che non volesse farsi sorprendere in un simile stato di debolezza dalla mamma, ma le emozioni sono troppo incombenti per poter essere mascherate.

Ci sciogliamo dall'abbraccio, e Malka prende tra le sue mani il volto di Sarah, rigato da tante piccole lacrime.

«Cosa ti prende, figlia mia?» le chiede Malka, che nel frattempo è caduta in una crisi assieme alla figlia.

«Niente mamma, non preoccuparti» le dice Sarah, tentando di smorzare la tensione.

Malka, come me, deve aver capito i suoi pensieri, tanto che la stringe in un altro abbraccio.

Io assisto alla scena, pensando a quanto, in questo momento, vorrei avere un contatto fisico con il mio stupendo Amos.

Tento di scostare qualche persona, avvicinandomi ad un angolo del vagone: sedersi è pressoché impossibile, ma potrò comunque avere un contatto con la solida parete.

È in questo momento di solitudine che la mia mente vaga altrove, lasciando momentaneamente il treno e i dolori che affliggono il mio esile corpo.

In poco tempo, tanti pensieri si susseguono freneticamente, a partire da quell'anziano signore di Berlino che mi ha incitato, con evidente terrore, a fuggire dal treno.

Penso poi a come le cose sarebbero andate diversamente se non avessi abbandonato il ghetto: mia madre avrebbe avuto un sostegno al suo fianco, forse gli orfanelli del rifugio sarebbero stati più al sicuro, e Malka e Sarah si sarebbero ricongiunte con l'uomo della casa e il figlioletto appena nato.

Anja, invece, avrebbe avuto un rapporto diverso con il padre.

Non posso non pensare a come mia madre abbia ricevuto ingiustamente offese e disprezzo nel corso dell'ultimo anno da parte mia, e un senso di nausea mi trafigge lo stomaco nel momento in cui penso alle luride mani di Alfred che sfiorano mia madre e Anja.

Poi, un altro pensiero, forse addirittura più travolgente, trapassa la mia testa con velocità: non ho cercato Yona nella campagna dove ci eravamo dati appuntamento.

Avevo promesso a mia madre di prendermi cura dei miei fratelli, di accoglierli in periferia, ma gli avvenimenti delle ultime settimane mi hanno totalmente distratto.

E se si fosse perso lì?

Se fosse sceso dal camion e non mi avesse trovato?

Se qualcuno lo avesse preso?

Il pensiero del mio fratellino disperso nella campagna buia e poco promettente, vicino ad un bosco ricco di presagi sinistri, sopraffatto dal senso di paura e solitudine, mi destabilizza più del previsto.

Sarà un calo di pressione o di zuccheri, fatto sta che la debolezza mi spinge a dirigermi goffamente verso il centro del vagone, e ad aprire la piccola finestra.

Inspiro l'aria, senza prestare minimamente attenzione al territorio circostante, mentre qualcuno mi aiuta a sporgermi, notando che sono in difficoltà.

Caccio un urlo quando viene fatta pressione sulla zona lombare, e mi rimetto giù, sentendomi relativamente più rinfrancato.

«Scusami ragazzo, volevo darti una mano» si giustifica un signore anziano, con una vistosa voglia sulla tempia sinistra.

«Non c'è nulla di cui scusarsi. Anzi, la ringrazio per l'aiuto: stavo per svenire» gli spiego ridacchiando, mentre tento di stiracchiarmi senza vedere le stelle.

Mi guarda con rammarico, e si accerta che io riesca a muovermi mentre si riavvicina a quella che, evidentemente, deve essere la moglie.

«Dai Adam, come ti dicevo non è un problema. L'importante è che siamo tutti interi» sento che la moglie gli dice, dandogli una carezza sulla testa bianca.

«Tu non capisci, Sharone: avevano un valore affettivo. Le hanno prese senza porsi alcun problema» le risponde, distogliendo lo sguardo da me, mentre indica la sua mano.

A questi punto capisco che si riferisce alle loro fedi.

Decido di tornare nel mio angolino e, sentendo ancora il malessere pesante, mi tolgo la giacca, dato che la presenza di tante persone ha reso l'aria più calda.

Nel momento in cui la sfilo, qualcosa cade a terra.

La signora del camion con cui siamo stati trasportati fino alla stazione, vedendomi in difficoltà, poggia a terra il figlio e si piega per prendere quella che sembra una lettera.

La ringrazio, non distogliendo lo sguardo dalla busta, e mi torna in mente quella lettera mai letta che Anja ha fatto passare sotto la porta quando abbiamo avuto quella seria discussione.

La porto al petto, stringendola forte vicino al cuore, e con le mani tremanti sfrutto gli ultimi raggi di sole per dedicarmi alla lettura.

Sulla busta, la scritta "perdonami" attira la mia attenzione.

«Ma certo che ti perdono, amore mio» sussurro.

Sono in un divario: sono straziato dalla curiosità di sapere cosa Anja mi abbia scritto, ma temo che le sue parole possano suscitare in me emozioni e ricordi che, al momento, non sono in grado di sopportare.

Inizio ad aprirla e, tra i lamenti dei neonati e il vociare confuso degli altri passeggeri, in questo tramonto sempre più nostalgico e con delle condizioni fisiche di certo non ottimali, mi addentro nelle frasi scritte a mano dalla ragazza che mi ha fatto uscire di testa.

In mezzo al sospiro del ventoWhere stories live. Discover now