53 - Non mi fregherai, bastardo

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Viola attraversava il corridoio, le guance rosse per il pesante cesto portabiancheria tra le mani

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Viola attraversava il corridoio, le guance rosse per il pesante cesto portabiancheria tra le mani. Raggiunse a fatica la parte della villa predisposta per la lavanderia e lo posò a terra, per poi asciugarsi la fronte sudata. Si fece aria con una mano per riprendere fiato, aprì il cesto ed estrasse le lenzuola da lavare. Aprì la lavatrice e le inserì all'interno, per poi prendere degli asciugamani e ripetere l'operazione.

Mentre regolava il lavaggio, iniziò a fischiettare una canzoncina natalizia che aveva sentito alla radio, in taxi, durante il tragitto verso il lavoro. Non poteva credere che due giorni dopo sarebbe stato Natale. Tutto sembrava ricordarglielo – gli addobbi nella villa e per il centro di Torino, i regali e soprattutto l'entusiasmo del padre – ma lei non riusciva a pensarci. Odiava festeggiare: non sopportava il buonismo e l'ipocrisia che si posavano come candida neve sui volti delle persone, per poi sciogliersi nei giorni successivi. Disprezzava il Natale soprattutto da quando sua mamma non c'era più: al contrario, la madre l'adorava e le mancavano i loro battibecchi sull'importanza del 25 dicembre. Non solo dal punto di vista religioso, ma anche come momento di raccoglimento in cui stare con i propri cari e scambiarsi parole cariche di significato.

Sulle labbra secche di Viola comparve un sorriso spontaneo: quell'anno avrebbe passato la Vigilia a lavorare e il giorno successivo insieme alla famiglia di Elettra. Quando la donna gliel'aveva proposto aveva rifiutato, ma il padre le aveva consigliato di accettare e lei l'aveva fatto, a patto che lui l'accompagnasse. Per la prima volta dopo anni non sarebbero stati soli quel giorno.

Fece partire la lavatrice e riordinò il detersivo, per poi prepararsi a riprendere il cesto portabiancheria. Quando lo sollevò si accorse di un rumore lontano, ma non ci fece caso. Uscì dalla lavanderia e si diresse verso le scale per dirigersi al piano inferiore, ma riudì quel suono. Aggrottò la fronte, mentre rinsaldava la presa e capiva cosa poteva essere: sembravano passi sul parquet e cassetti che si aprivano o chiudevano. Forse quelli dello studio di Germana, dato che si lamentava sempre del loro rumore. Eppure doveva esserseli immaginati, dato che la sua datrice di lavoro era in salone che parlava al telefono. La sua voce si sentiva fin da lì e, a giudicare dal tono, pareva una conversazione molto amichevole.

Viola sbuffò: forse la stanchezza le faceva udire rumori immaginari, ma quando scese un gradino sentì di nuovo quei misteriosi suoni e un brivido le salì lungo la schiena. Cosa poteva essere? Forse la signora aveva lasciato la finestra aperta e il vento stava sparpagliando tutto? O forse era entrato qualche animale?

Fece un passo indietro e posò il cesto in mezzo al corridoio, per poi muoversi con piccoli passi verso lo studio. Doveva stare attenta a non produrre il minimo rumore. Si avvicinò, sorpassando la pianta ragno in un lato del corridoio, e trattenne il respiro vedendo la porta socchiusa: Germana chiudeva sempre lo studio e le permetteva di pulirlo solo in sua presenza. Cosa poteva essere successo?

Appoggiata al muro, vicino a un tavolino che ospitava la statuetta di una donna africana con un recipiente d'acqua in testa, notò la scopa rosa usata poco prima. Afferrò il manico e a piccoli passi giunse davanti alla porta: riusciva a distinguere i rumori, ma non la fonte. Deglutì e, armata di coraggio, aprì piano il battente socchiuso.

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