Capitolo 1. Visioni

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Ci sono delle corde, nel cuore umano,

che è meglio non toccare.

Charles Dickens

MADISON

Gennaio.

L'aria gelida sbatte contro la mia pelle mentre sto correndo.

Corro, corro, corro.

L'alba è alle porte e illumina i sentieri di un luogo a me sconosciuto ma abbastanza nascosto tale da non farci trovare. Le gambe bruciano insieme ai polmoni e sono in debito d'ossigeno. Probabilmente sono passate tre ore da quando sono uscita dal nascondiglio, da quando ho smesso di sbattere la testa contro la scrivania piena di fogli, schemi, mappe, strategie, nuove divise.

Un nuovo marchio.

Siamo definitivamente spariti, ufficialmente divisi, letteralmente distrutti nell'interno. Lo spirito di sopravvivenza continua a farmi correre fino all'entrata del rifugio: esternamente distrutto ma internamente un edificio con le ultime modernità del secolo.

Non sono affaticata, in realtà non percepisco nulla dentro di me. Non è normale per un essere umano sentirsi programmato come un automa. Eppure, ecco come mi sento, un morto che cammina e un corpo senza cuore.

Esattamente come in principio si sentiva una persona.

Cammino tra i corridoi, alcune guardie mi passano di lato ma il mio sguardo è fisso e perso nel vuoto. Procedo, vorrei ancora correre contro una via d'uscita da questo inferno che però sembra non apparire. Eppure, cammino, cammino, cammino.

Arrivo nella mia stanza: un letto vuoto, con solo una coperta perché il freddo mi offre pace. Il mio corpo non ha calore, non ha vita. Tantomeno questa pelle ancora più bianca, questi occhi non più illuminati.

Il letto è intatto, aggiungerei.

Perché non dormo, il lavoro non ha bisogno di riposo.

Lavoro, lavoro, lavoro.

La stanza è buia, spesso con le serrande abbassate e la mia scrivania con la lampada accesa. Una luce illumina ciò che resta della mia vita: di nuovo documenti, mappe, schemi, strategie.

Foto.

Il mio maledetto sguardo si focalizza sempre su una in particolare, lasciata lì perché merito di trafiggermi di dolore e auto-lesionarmi di rimorso per non essere riuscita a fare abbastanza.

Perché su quel terrazzo che chiamano The Edge avevo tutto e ora non ho niente. Quel panorama ricco di luci ora per me non è altro che un'immagine in bianco e nero. Quel sorriso per me non è altro che un ricordo mandato via dal dolore, perché quegli occhi celesti non sono altro che la mia disperazione più grande dal quale io non mi riprenderò mai.

Infatti, mi giro e lo vedo.

L'aria impassibile come sempre, occhi celesti che trafiggono quasi ancor più del mio dolore. Lo vedo, all'angolo della stanza buia. Venuto per ricordarmi ancora del mio rimorso, giunto per farmi pentire di essere nata. Anche io sono impassibile, anche io sono un morto che cammina ormai. Oggi non so cosa ha da dirmi.

Anche se so essere tutto frutto della mia immaginazione.

"Hai tentato di ucciderti ancora?"

Chiudo gli occhi, sperando che quella voce sia reale. "E tu hai ancora tentato di non farmi venire da te?"

Scuote la testa, fossette. Maledette fossette.

"Non verrai mai da me, te lo impedirò".

"Tu non puoi scegliere per me, smettila di non farmi morire".

"Smettila di tentare di morire, non è ciò che ti ho insegnato".

"È vero, ho tentato. Ma solo per vedere se sarebbe successo davvero. Sapevo che mi avresti salvata tu, come ogni volta. E detesto che tu lo faccia, detesto che sia sempre tu a sacrificarti per me!"

Ho alzato la voce, con un calcio scaravento la sedia dall'altra parte della stanza. Lui continua a fissarmi appoggiato all'angolo del muro, mi guarda.

"Sai perché non ancora devo morire?" Gli domando. "Perché devo fare delle cose prima, poi potrò riposare in pace. Anche se dovrò subire le pene dell'inferno per quello che ho fatto".

"Ho scelto io quello che ho fatto".

"No, è stata colpa mia" il mio respiro è spezzato. "E una volta che li avrò uccisi, andrò all'inferno per quello che sei stato costretto a fare per colpa mia".

"Non verrai nell'inferno".

"No" sussurro. "Perché sono io che lo sto per creare".

Una porta bussa, interrompendo l'unico contatto con qualche universo parallelo che mi permette di colloquiare con lui. Almeno per ricordarmi come mai sono ancora in vita, perché non l'ho ancora fatta finita, ciò che devo fare. Qualcuno entra.

"Madison?"

Non rispondo, alzo lo sguardo attendendo impaziente una risposta.

"Dovresti mangiare qualcosa".

"Esci di qui".

Torno ad abbassare lo sguardo sulle carte, sento il suo respiro che si ferma.

"Brunetta..." si blocca. "Leader, per la tua salute dovresti dormire di più. Non puoi correre ore senza allenarti e senza mangiare-"

"Soldato, devi portare un messaggio".

Sospira, si scompiglia il ciuffo corvino. "Lo farò, signora".

"Convoca immediatamente la squadra nella sala riunioni" mi giro. "Ho un piano". 

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