I - Bentornata a New York

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L'eleganza è la sola bellezza che
non sfiorisce mai.

Colazione da Tiffany


Ciò che nella vita rimane, non sono i doni materiali, ma i ricordi dei momenti che hai vissuto e ti hanno fatto felice.

Così scriveva Alda Merini, la scrittrice preferita di sua madre.
Ancora ricordava quando da bambina le leggeva le sue poesie, anziché le fiabe della buona notte. Tra tutte quante, quella le era rimasta particolarmente impressa nella mente, ma le era bastato un solo attimo per trovare quella poesia - che aveva sempre amato - patetica, perché lei ormai, di ricordi ne aveva solo di tristi.

Era quello l'unico pensiero che riusciva a formulare mentre correva per le strade buie e desolate di Saint Breath.

Correva come una forsennata, come se non ci fosse un domani, come se non riuscisse più a vedere l'arrivo di quell'infinita maratona.

Non le restava più fiato nei polmoni, eppure lei continuava a correre, avrebbe fatto di tutto pur di mettersi in salvo.

Stava correndo senza neanche guardarsi una volta indietro, non voleva vedere tutto quello che si lasciava alle spalle.

Le gambe le facevano male, la testa le pesava incredibilmente e non sapeva più neanche lei come i suoi piedi fossero ancora in grado di correre, nonostante tutto il resto del suo corpo sembrava già privo di vita.

Era così che si sentiva. Priva di vita.

Nulla sembrava più avere senso.

Tutte le cose lì intorno - quelle stesse cose che era abituata a vedere da ormai sedici anni - all'improvviso le sembrarono estranee.

E forse l'unica cosa che desiderava in quel momento era sentirsi estranea anche dal suo corpo, da sé stessa.

Ma non era possibile.

Il dolore lo percepiva tutto.

In ogni parte del corpo.

E della mente.

Poi finalmente arrestò la corsa.

Lì davanti c'era casa sua.

Alzò lo sguardo su di essa ed ebbe di nuovo la stessa sensazione. Aveva per davvero vissuto lì per tutti quegli anni?

Un senso di disgusto partì dallo stomaco e arrivò fino alla gola. Si accovacciò con le ginocchia piegate a pochi centimetri da terra. Una fitta prese a torturarle il basso ventre mentre vomitava di tutto, persino l'anima.

«Mamma...» mormorò tra un conato e l'altro «Aiutami, per favore»

Ma si rese conto troppo tardi che sua madre non l'avrebbe potuta aiutare come quando da bambina le premeva una mano sulla fronte e le portava i capelli dietro la schiena per non farglieli sporcare.

«Papà, papà...» sussurrò con la gola in fiamme, mentre si voltava intorno.

Lo cercava tra i cespugli e tra gli alberi, come se stesse ancora giocando a nascondino con lei.

Ma si era nascosto proprio bene quella volta e non riusciva a trovarlo.

Vivere la vita, assomiglia a qualcosa di perfetto. Quelle erano state le ultime parole che sua madre le aveva rivolto, eppure in quel momento non c'era nient'altro che le facesse così schifo.

Le passò per la mente che forse delle volte era per davvero meglio mollare la presa - come aveva fatto suo padre. Era inutile cercare di non annegare, inalare fino all'ultimo respiro come se fosse il più grande regalo della vita - come, invece, aveva fatto sua madre - se alla fine si annega lo stesso ed ogni sforzo si rivela vano.

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